Maradona 60

Roberto Beccantini30 ottobre 2020Pubblicato in Per sport

Dopo gli 80 di Pelé, ecco i 60 di Diego Armando Maradona. Le notizie sulla sua salute mi fanno sempre sobbalzare: eppure dovrei conoscerlo. Diego ha vissuto le vite di tutti i frequentatori della Clinica messi assieme. Si è speso e spremuto fino all’ultima goccia, ci ha regalato molto meno di quanto non si sia tolto con la droga, anche se a noi sembra comunque un’enormità. Non ha senso chiedere o chiederci cosa avrebbe fatto se si fosse fatto di meno. I geni, e lui lo è stato, considerano la banalità del bene una camicia di forza, ed è così che si perdono, a volte, dopo averci sedotto e frequentato. Noi, peccatori non meno di lui.

Ho avuto la fortuna e il privilegio di seguirlo ai tempi del Napoli e dell’Argentina «campeon». Le opinioni sono soggettive, e mai vanno considerate giudizi universali: a maggior ragione, se legate a epoche diverse, a pianeti lontani. In attesa che Leo Messi e Cristiano Ronaldo concludano la carriera e si presentino in sala «peso», Diego per me è stato il più grande. Più grande anche di Pelé, che pure ha vinto tre Mondiali (a uno) ed era più completo. Maradona era più «totale»: leader, uomo-chiave e uomo-squadra, etichette che non sempre combaciano. Senza Nilton Santos, Didì o Garrincha a reggergli lo strascico.

Fidatevi: sul campo era un esempio. In caso contrario, i primi a ribellarsi sarebbero stati i compagni. La punizione indiretta contro la Juventus al San Paolo; la ladrata di mano e l’esplosione atletica, estetica e tecnica contro gli inglesi in Messico: se dovessi fissare dei confini, traccerei questi.

Però quel ragazzo ne ha fatta di strada, canterebbe oggi Adriano Celentano riandando alle catapecchie di Villa Fiorito, Buenos Aires, dove nacque e da dove salpò. Chi scrive, ha sempre avuto un debole per i numeri dieci, da Omar Sivori in su. Molti di voi sono giovani, e Omar non lo hanno conosciuto. Era un uomo «di sinistro», il papà di Diego, il nonno di Leo e il bisnonno di Paulo Dybala: un chierichetto, paragonato ai suoi rostri, al suo ghigno. River Plate, Juventus e poi Napoli: il tunnel come via di uscita dall’esistenza, e non già (o non solo) come ingresso nello sberleffo.

Maradona è stato fuoriclasse assoluto, «fuori» da tutto e da tutti, persino da Sepp Blatter e i suoi maneggi, puntualmente denunciati in largo e chiassoso anticipo sui blitz dell’Fbi. Il suo ruolo è in crisi, la fantasia è stata deposta e deportata, comandano le lavagne, la propaganda incombe e incanala, il Covid ha chiuso il mondo dentro tanti, piccoli mondi. Siamo prigionieri di un «assassino» che gira libero.

Penso ai ritmi della Premier: restano pazzeschi, e aiutano a cementare il coraggio. Proprio a Wembley ricordo un cammeo di Maradona, il Maradona del maggio ‘80, il più selvatico, il più onnivoro. Amichevole Inghilterra-Argentina: a un certo punto Diego dribblò un paio di «maestri» e disegnò quello che avrebbe poi dipinto nel 1986. Il tiro non gonfiò la rete: sfiorò il palo. E per questo, paradossalmente, gonfiò lo stadio. Tutti in piedi. Come se avesse segnato, come se avessero sognato.

Detto che il Maradona allenatore fu puro marchettificio e dunque non mi interessa, vi lascio una immagine che, geloso, porto nella memoria dal 1985. Ero a Buenos Aires per le eliminatorie dell’Argentina. Sfruttando il fuso, dopo aver dettato il pezzo correvo in taxi al quartier generale della seleccion a Ezeiza, vicino all’aeroporto. Amico di Carlos Bilardo, il ct, e Raul Madero, il medico. Lavoravo, allora, per la «Gazzetta». Le sei, sette di sera. Diego palleggiava, solo, con le nuvole, i compagni già sotto le docce. Bilardo lì, serio, felice della sua felicità. La palla saliva e si perdeva, sembrava un aquilone. Poi tornava docile, in base all’effetto – e, penso, anche all’affetto che non poteva non provare – ai piedi del Pibe.

Era un altro secolo, quando anche un umile scrivano, termine caro al grande Camin, poteva avvicinare un dio senza essere cacciato dai suoi sacerdoti.

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