Da Allegri a Pioli

Roberto Beccantini22 maggio 2022Pubblicato in Per sport

Dal 2011 al 2022, da Allegri a Pioli, da Ibra a Ibra. Il Milan è campione d’Italia per la 19a. volta. Raggiunge l’Inter, scavalcata nei pronostici (il mio, almeno) e superata in classifica. E’ il primo titolo che va oltre Berlusconi, di un fondo americano che si accinge a cederlo. E’ la laurea di Gazidis, di Maldini, di Massara e, lasciatemi dire, di Boban, colui che fece di tutto per tenere Pioli quando la proprietà si era invaghita di Rangnick.

Lo champagne, l’ha stappato fra i «camerieri» del Sassuolo, un 3-0 comodo comodo, in allegria e in scioltezza, mentre l’Inter di Inzaghino sbatteva le corna contro il muretto della Sampdoria, demolito da Perisic e Correa (doppietta). Al Mapei, Leao trasformava ogni palla persa in assist come l’acqua nel vino di quella parabola là, zampate di Giroud e acuto di Kessié, già del Barcellona (chapeau). A Fusignano, parleranno libidinosamente di pressing efferato; ad Appiano, non proprio. C’est la vie, è l’Italia.

Sono contento per Pioli, considerato fino a ieri un carro attrezzi come tanti, e da oggi, immagino, il proprietario dell’officina. E Inzaghi, temo, un utensile non più all’altezza di Conte (ah, ah, ah).

Ne aveva 30, Ibra, l’estate dell’ultimo hurrà. Trascinò la squadra dal campo. Oggi va per i 41 e fa il totem dalla panca, ma è stato comunque cruciale, marziale nel cementare la tribù. Come Kjaer. Le fughe di Donnarumma (al Paris) e Calhanoglu (all’Inter) sembravano perdite immani. Come non detto. Maignan, una colonna. E il trequartista in bilico perenne fra Brahim Diaz, Junior Messias, lo stesso Kessié e Krunic, un’emergenza ben gestita. Se Barella fu il simbolo dello scudetto interista, Tonali, classe 2000, lo è stato di quello milanista. Qualità e quantità. Gol preziosi a parte. Un Gattuso con alluci oxfordiani.

Tutto cominciò dopo il 5-0 di Bergamo, con la Dea. Era il 22 dicembre 2019. Ibra, Kjaer, Saelemaekers, reclutati d’urgenza, affiancarono Theo Hernandez e Leao; Pioli cominciò una semina lenta, profonda, che trovò negli stadi chiusi per pandemia un alleato involontario quanto generoso (è la tesi, anche, di Costacurta).

A Serena Pioli ricorda Trap, ad altri Liedholm. Stefano non ha gestito, ha insegnato. Doveva, certo, ma non è detto che ci riuscisse. Da Romagnoli-Kjaer è passato a Kalulu-Tomori: eppure, con il Napoli, la miglior difesa è proprio la sua (31 gol). Le rughe e le cicatrici di Zlatan hanno portato al mestiere e alle ante di Giroud, 11 gol come Leao. Il massimo. Con bomber così scarni avevano vinto il Milan di Liddas (Bigon, 12) e Capello (Massaro, 11), la prima Juventus di Conte (Matri, 10). Riferimenti preziosi, non banali. E poi «quella» sinistra al potere: Theo-Leao. Le loro scorribande hanno sabotato molte trame, scoraggiato molte alleanze. Un occhio ai giovani, e uno al bilancio: si può, evidentemente.

Milan 86, Inter 84. Un anno fa: Inter 91, Milan 79. E’ la conferma – sgargiante, schiacciante – del ritorno di Milano dopo i nove anni di Juventus. Due punti di distacco dopo un rodeo di 38 partite sono una pagliuzza che pesa come una trave. Cercarne il Dna non è facile, è roba da tifosi, forse tra i portieri, forse nell’assenza della figura di un Lukaku, forse in quei tre minuti di Giroud che ribaltarono il più interista dei derby. Non penso che il calcio nuovo abbia sconfitto il calcio vecchio: bene o male, è l’Inter a finire con l’attacco più prolifico e due coppe in bacheca. Ha vinto chi favorito non era, ha vinto chi ha avuto coraggio di non aver paura. Mai. Penso che basti.

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