Dov’è la notizia?

Roberto Beccantini7 agosto 2020

Dov’è la notizia? Nelle partite «dirette», fra l’ultima Champions e l’attuale, ha segnato solo Cristiano: sette gol. Tracce di grande giocatore, non di squadra grande. E così la Juventus è fuori, e anche questa non è una notizia. Negli ottavi, non succedeva dai supplementari bavaresi del 2016. Per spiegare «questa» notte, non si può non riandare a «quella» del 26 febbraio, alla vittoria del Lione dopo che Madama gli aveva regalato un’ora. Lo smacco nasce tutto lì.

Gli episodi, certo. Il rigore su Aouar, poi trasformato da Depay, era molto, molto dubbio; e quello dello stesso Depay molto, molto da mani-comio, e nel baratto, di sicuro, ci hanno guadagnato i «violini» di Garcia. Settimo in Francia al momento dello stop, e con una sola gara ufficiale nelle gambe dall’8 marzo, il Lione si è difeso agli ordini di Aouar, un signor centrocampista di 22 anni.

Sarri non poteva inventarsi un’altra Juventus. Ha dato fiducia a Higuain: per carità. Ha rischiato Dybala, nel finale, e Dybala si è rifatto male. La difesa prendeva sempre gol, e un altro l’ha preso. Il centrocampo era lento, timido e non osava lanci ficcanti, smarcanti: perché mai Pjanic e Bentancur avrebbero dovuto trasfigurarsi? Non restava che la carta Cristiano. Ha fatto il possibile e l’impossibile: con l’Atletico bastò, con i francesi no. E in generale: troppi fuorigioco, troppi passaggi indietro e rare emozioni (il numero di Bernardeschi, sì, ma uno solo). In Europa è diverso, Paratici cita spesso i 3.000 giorni da campioni d’Italia, ma l’ultima Champions risale al 1996, e questa è una ferita, profonda, che i cerotti delle finali medicano ma non guariscono.

Perse Supercoppa e Coppa Italia, fuori già agli ottavi, il nono scudetto non può nascondere il fallimento, se vincere divertendo era il messaggio aziendale. Ma Sarri lo terrei comunque: rinfrescherei la rosa. E chiederei scusa ad Allegri.

Alta (e altra) velocità

Roberto Beccantini7 agosto 2020

Al di là della suggestiva coincidenza del trasloco americano, da James Pallotta a Dan Friedkin, tentazione alla quale è difficile resistere, non vorrei che nel vuoto di Duisburg la Roma di Paulo Fonseca avesse pagato, anche, l’allegria canaglia trasmessale, sabato sera, dallo spensierato 3-1 alla primavera-autunno della Juventus. Lo scrivo perché il Siviglia l’ha asfaltata, letteralmente: due gol (di Sergio Reguilon e di Youssef En-Nesyri), un altro annullato per centimetri, due traverse.

Il Siviglia allenato da Julen Lopetegui, il tecnico che, ct della Nazionale, saltò in Russia sulla mina del (passaggio al) Real. E costruito da quel Monchi che, nella capitale, dicono succhiasse plusvalenze come un vampiro il sangue. Non c’è stata partita se non, alla ripresa, per modici e sterili sprazzi. Reguilon si mangiava Bruno Peres; Ever Banega, ex Inter, sembrava Riccardo Muti; Lucas Ocampos puntava e dribblava, folletto imprendibile; Jesus Suso, ex Milan, si buttava, famelico, sugli avanzi.

E la Roma? Non pervenuta: da Pau Lopez, un mezzo disastro, a Nicolò Zaniolo, che troppo ha patito il salto dalla morbida Tiranna dello Stadium agli indiavolati Sioux d’Andalusia, passando attraverso il diversamente acerbo Roger Ibanez e un Gianluca Mancini troppo frustrato per evitare il sadico rosso dell’arbitro, l’olandese Bjorn Kuipers, al 98’. Brutto segno, quando si arrende persino Edin Dzeko.

Era la quarta di Spagna contro la quinta d’Italia. Da come ha giocato il Siviglia, altro che pandemia: non rammento un passaggio ai quarti di Europa League più autoritario, più autorevole. La Roma non ci ha capito niente: e la difesa a tre, che in patria ne aveva corretto ed esaltato gli ultimi chilometri, nulla ha potuto. Chiusa una storia, mister Friedkin si accinge ad aprirne un’altra. Aspettando lo stadio e (i tifosi) mercati meno dolorosi.

Episodi girevoli

Roberto Beccantini6 agosto 2020

Il fascino perverso della partita secca è, anche, una foresta di episodi, di se, di ma. Il 2-0 al Getafe che spalanca all’Inter i quarti di Europa League ne riassume le sliding doors vagabonde, dal rigore che Molina spreca, e sarebbe valso l’uno pari, all’assit sbirulo con cui Djené ha trasformato l’ennesima panchina di Eriksen nell’estasi del raddoppio.

Si giocava nel deserto tedesco di Gelsenkirchen, ballavano la seconda d’Italia e l’ottava di Spagna. C’era stato, dopo Bergamo, il discorso del carro di Conte, carro dal quale proprio il mister è stato il primo a scendere. Forse perché magnanimo, forse perché costrettovi (a naso, direi la seconda). Non era una partita facile, e difatti non lo è stata. Subito una gran parata di Handanovic, sempre sul pezzo, quando sembrava che le due settimane di riposo avessero trasformato i soldatini di Bordalas in assatanati guerrieri.

A piccoli morsi è uscita la qualità degli interisti. Di De Vrij, smaltita l’euforia che, in avvio, l’aveva spinto a sfondare le linee nemiche, rugbista solitario, finendone placcato. Di Barella, sempre dentro le esigenze. Di Bastoni, che ha pennellato i lanci per i gol. Di Martinez, ondeggiante fra le linee e di lesta mira (bravo David Soria, due volte). Di Lukaku, che cerca nei corpi fionde e balaustre: capace di sbloccare il risultato con un diagonale preciso e incisivo come il bisturi di un chirurgo; e capacissimo, pure, di sciupare (imitato dal «Sanchez in lob» degli sgoccioli) il più elementare dei tocchi.

Un solo ammonito (Damian Suarez), e per giunta al 90’: non poteva che essere inglese, l’arbitro. Il penalty, Taylor l’ha decretato per un mani-comio, molto «italiano», di Godin, reo di aver gonfiato a dismisura il celeberrimo «volume». Gli era sfuggito, è andato al Var. Molina lo aspettava al varco.