Tribala

Roberto Beccantini15 dicembre 2019

Dal triplete della Lazio al tridente è tutta un’altra musica. Certo, l’Udinese è l’Udinese, fragile nella fase difensiva, ma insomma: Cristiano, Dybala e Higuain hanno divertito e si sono divertiti. Per un tempo, almeno. Poi Madama ha rallentato, l’Udinese è cresciuta, Cristiano ha preso un palo e ribadito quanto sia bravo Musso, fino ai tuffi di Buffon e al gol di Pussetto, epilogo che ha mandato in bestia Sarri.

Il marziano ha segnato di destro (tiro bellissimo, per come ha dovuto calibrarlo più in fretta della solita fretta) e di sinistro (chirurgico). Bonucci di testa, su sponda di Demiral, preferito a De Ligt. Fermo al rovinoso pomeriggio col Verona, il turco sembrava perso. E’ rientrato a Leverkusen, ha convinto ed eccolo arrampicarsi su Okaka e sdraiarsi, provvidenziale, ai piedi di Lasagna.

Sarri si è sempre posto di fronte al tridente con la flemma del rivoluzionario che preferisce le sortite notturne al colpo di stato in pieno giorno. L’aspetto buffo è che l’Omarino ha coperto il campo in lungo e in largo come ai tempi dell’ultimo Allegri, tuttocampista o trequartista a seconda dei vezzi lessicali. L’ho visto avviare un paio di contropiede da area ad area, addirittura.

E’ che se stai corto, pressi e palleggi alto, la palla suda più di te, cosa che in passato non sempre succedeva, e gli avversari si demoralizzano. Nella posizione di Pjanic, squalificato, ha giostrato Bentancur: non ai livelli della prima mezz’ora dell’Olimpico, ma all’altezza delle esigenze, rare e modeste. Ai lati, Matuidi e Rabiot: portatori seriali di legna.

In Europa vince chi ha più coraggio e attacca meglio. Non sempre schierare molti attaccanti qualifica il gioco d’attacco, ma Real e Barcellona ci hanno insegnato che ne vale la pena. Urgono rivali più probanti. E se per caso il meccanismo s’inceppa, la panchina non offre altre punte di ruolo. Però è un’idea che seduce.

Te Deam

Roberto Beccantini11 dicembre 2019

Passare dal Te Deum alla Te Deam non credo che sia blasfemo. E’ riconoscere i meriti e i contorni di un’impresa. L’impresa dell’Atalanta capace di risorgere da tre sconfitte e strappare in Ucraina, allo Shakhtar Donetsk, i primi, favolosi, ottavi di Champions.

Tre a zero. In alto i calici e in alto i cuori, voi anime brave. Aveva bisogno di tanto Gasperini, magnifico condottiero, uno dei pochi che insegnano calcio e, con questo, decorano le squadre. Ci riuscì al Genoa, sta concedendo il bis, e che bis, a Bergamo, dove ha, semplicemente e meravigliosamente, rifondato l’Atalanta. Non ebbe fortuna, e nemmeno tempo, all’Inter del dopo triplete, dove, peraltro, le lancette dello scudetto sono ancora ferme alla vendemmia del 2010.

Doveva vincere, l’Atalanta, e aveva bisogno che le desse una mano il Manchester City, a Zagabria. Gliel’ha data, come no: e, già che ci siamo, gliel’ha data pure l’arbitro, tollerante con Muriel e severo con Dodo. Mancavano Zapata e Ilicic, la «bestia» e la «bella». Ci ha pensato il Papu, hanno provveduto quelli del coro, Castagne, Pasalic e Gosens, autori dei gol. E anche Gollini, quando il gioco si è fatto duro, ci ha messo del suo.

Il rosso a Dodo, sullo 0-1, ha spianato una strada che il ritmo e le trame di De Roon e Gomez avevano già disboscato. L’Atalanta è la ventunesima squadra della Premier che gioca, per domicilio geografico e scelta tecnico-strutturale, nel nostro campionato. Morde e non fugge. Marca a uomo avanzando. Vive il calcio come una sfida e non una scommessa.

L’esempio viene dall’alto: da quel Percassi, padrone e presidente, che resistette dal licenziare Gasp il primo anno, dopo i triboli introduttivi, né pochi né lievi.

Il resto non è più cronaca. E’ storia di provincia. Bella e romantica.

Non solo sprechi. E su Ancelotti…

Roberto Beccantini10 dicembre 2019

Una lezione, non mi vengono altre parole. Al di là degli episodi, degli sprechi, dei gol annullati per fuorigioco (tre). Una lezione. Era il Barcellona di scorta, con Messi Sesto rimasto a casa e una nidiata di seminaristi agli ordini di Vidal (nostalgia canaglia) e Rakitic (perché no). All’Inter mancavano le bussole di centrocampo. Conte lascia, dunque, la Champions e scivola in Europa League, sfrattato da quel Borussia che aveva regolato a San Siro e stava demolendo a Dortmund. Stava.

Poco da obiettare, se fosse finita così con il Barça al completo. Ma è finita così, ripeto, contro le riserve. E l’Inter, oggi, è la regina del campionato. Brutto segno, per i megafoni domestici.

Ci ha provato, l’Inter, con la palla lunga e i fraseggi piccoli. Ma Brozovic era soffocato, Lukaku giù di mira (pareggio a parte) e dalla panchina è arrivato poco: penso a Lazaro. La differenza esula, però, dal taccuino. Si annida nel gioco, la scuola che assorbe, conquista e trasforma chiunque vi acceda. Fino ai cambi, che hanno dato molto più a Valverde Non solo o non tanto Suarez e de Jong, che sono pur sempre un pistolero e un signor regista. Soprattutto, Ansu Fati: ha 17 anni, e se il gol di Perez era stato frutto di un auto-assist di Godin, il suo è stato un gioiellino di biliardo. Alta oreficeria.

Migliore dell’Inter, Lau-Toro: faceva a sportellate con tutti, raccoglieva mozziconi e li offriva in giro, ma le occasioni più ghiotte le ha avute Lukaku, e a certi livelli non puoi sbagliare. La Roma, graziata, pareggiò. Il Barcellona B, risparmiato, ha vinto. Era un’occasione unica: inutile girarci attorno.

Chiudo con il Napoli. Facile vendemmia con il Genk, tripletta di Milik più Mertens. Augurando a Gattuso di diventare il suo Di Matteo, l’esonero di Ancelotti mi sembra, francamente, una c. pazzesca. Alla Fantozzi della corazzata Potemkin.