La doppia sfida

Roberto Beccantini11 luglio 2018

Nessun dubbio che sia l’affare di questo giovane secolo. Cristiano Ronaldo, uno dei due fuoriclasse dominanti al mondo, l’altro è Leo Messi, ha lasciato il Real di Madrid per militare nella Juventus, la società dominante del campionato italiano.

Fin qui, tutti d’accordo. E tutti d’accordo pure sul fatto che rilancerà una serie A ai minimi storici come appeal. Si parlerà molto di noi, e non solo fra le moviole dei bar sport. Anche, e soprattutto, nel resto del pianeta, che ci considera i Sancho Panza di Premier e Liga.

Cinque palloni d’oro e cinque Champions, trofei ovunque e comunque, allo Sporting Lisbona, al Manchester United, al Real, con il Portogallo: Cristiano è Cristiano. Un extraterrestre, un marchio, un’industria. Immagino che Agnelli abbia fatto bene i conti: perché qui comincia un’altra la storia. La storia che CR7 compirà 34 anni il prossimo 5 febbraio: e un investimento da 450 milioni, tutto compreso, aggiunge un motivo di ansia al fascino indiscusso e indiscutibile dell’operazione.

Platini arrivò che aveva 27 anni, Maradona non ancora 24, l’altro Ronaldo, il Fenomeno, non ancora 21. Cristiano irrompe a 33, nel ricordo del trentaduenne Pirlo (che proprio un pacco non fu). Gli esperti giurano che il «brand» della Juventus volerà. Sul piano tecnico, quello che mi preme di più, si parla di sacrifici obbligati (Higuain, Rugani, forse altri). Con il portoghese si alza l’asticella delle ambizioni, delle attese, delle pretese. Tocca ad Allegri, che rifiutò il Real, metterci mano.

Gli avversari già davano tutto contro la Juventus, figuriamoci cosa daranno contro la Juventus di Cristiano. Giocatore e club hanno deciso di unire le rispettive storie. Nasce una doppia sfida. Della Juventus al suo passato, di CR7 al suo futuro. Con la Champions sempre lì, in posa, tra ossessione e normalità.

La testata giusta

Roberto Beccantini10 luglio 2018

Ha vinto la squadra più squadra, di misura ma con merito. La Francia è sempre stata dentro alla partita, il Belgio solo quando l’ha trascinato, a furor di dribbling, Hazard. Che poi il gol l’abbia siglato uno «stopper», Umtiti, su corner di Griezmann, è un episodio che non sposta i confini del giudizio. In questo Mondiale, i calci piazzati sono stati una risorsa, non solo dei numeri.

Deschamps ha proposto il suo classico 4-3-3 con Pogba e Matuidi ai fianchi di Kanté: tutti e tre sopra la media, il divario è cominciato lì. Più variabili, gli attacchi dei blu: gli strappi di Mbappé, le sponde di Giroud, i sentieri di Griezmann. E una difesa che, dopo la sbornia argentina, ha concesso agli orfani di Cavani e ai diavoli rossi il minimo sindacale.

Per la Francia, sarà la terza finale dopo il trionfo del 1998, con Deschamps capitano, e le zuccate berlinesi di Zidane nel 2006, la prima sventata da Buffon, la seconda «parata» da Materazzi. Nella mia griglia, l’avevo accreditata della terza piazza. La roulette russa le ha tolto di mezzo fior di Nazionali; il resto – e non era poco – l’ha costruito con calma, con talento.

E’ una squadra multietnica, giovane e maliziosa, che alterna lo champagne dei triangoli alla minerale di chiusure efficaci. C’era una volta la cicala che pettinava la «grandeur» a uno specchio che, spesso, le scappava (o le rubavano) di mano. Au revoir.

Il Belgio si è aggrappato ai muscoli di Fellaini e Chadli, che però hanno trovato pane per i loro corpo a corpo. Dembélé ha vagato senza un indirizzo sicuro. Lukaku elemosinava munizioni, Hazard ci ha provato con tutti, e da tutte la parti.

Lloris e Courtois si sono confermati portieri all’altezza. Ripeto: ha deciso, come a Berlino, un colpo di testa. Questa volta, però, al momento giusto e nel posto giusto.

Dalla Russia con rigore

Roberto Beccantini7 luglio 2018

Una notte in cui avevo bevuto o forse no scrissi che per vincere un Mondiale bastano quattro pareggi e una buona mira dal dischetto. Croati e russi mi hanno preso alla lettera. I croati, freddando i danesi. I russi, crivellando gli spagnoli. Poi, nella lotteria «one to one», avanti Dalic e a casa Cherchesov.

E’ stata una guerra che ognuno ha combattuto con le sue armi. La Croazia, gonfiando il petto (di Modric, soprattutto), ma concludendo poco e tirando male. La Russia, rimbalzando tra barricate e baionette. Dalle quali era riuscita comunque a estrarre una gemma: il gol di Cheryshev. Propiziato da Mandzukic, il pareggio di Kramaric era un dettaglio di cronaca che coincideva con un piccolo atto di giustizia.

A Sochi non si va al circo. Al massimo, in un’arena aperta ai cozzi gladiatori di questo calcio che ha abbassato il tetto e alzato la base. Cercavo Golovin, ho trovato un’ombra: che mi sia sbagliato? Il palo di Perisic era un brivido, raro, di un braccio di ferro ormai logoro. E se la zuccata rimbalzante di Vida sembrava un risarcimento congruo, la testata del «brasiliano» Fernandes, che poi avrebbe sbagliato uno dei penalty, riportava i pugili, suonati, al centro del ring e dell’equilibrio.

Difficile giocar bene contro i russi. Più facile tener palla: anche perché sono loro a rifiiutarla. La Croazia non era stata brillante neppure con la Danimaraca, e ancora una volta l’ultimo rigore l’ha tirato Rakitic. Alla fine, mentre l’armata di Ignashevich schiumava di desiderio, i croati contavano i feriti, Vrsaljko (sostituito), Mandzukic, perfino Subasic.

Attraverso sentieri molto contorti, la sfida ha esaltato il talento geometrico di Modric, emerso da un primo tempo un po’ così e più a suo agio con Brozovic in mediana. Non è una novità: e proprio questo è il suo pregio.