Da Boniperti a Cristiano

Roberto Beccantini4 luglio 2018

Nel giorno in cui Giampiero Boniperti compie 90 anni, si continua a parlare – sempre, e sempre di più – di Cristiano Ronaldo alla Juventus. La prima notizia è documentata e documentabile; la seconda non ancora. Mi viene in mente, tanto per legare il fatto al fattibile, quando proprio lui, Boniperti, volò a Buenos Aires per prendere Diego Maradona. Su dritta di Omar Sivori, alla vigilia della riapertura delle frontiere (estate 1980). Mancava solo l’annuncio e a «Tuttosport», dove lavoravo, lo aspettavamo da una telefonata all’altra. Le pagine erano già pronte, «flanate». Doveva essere uno scoop. Lo venne a sapere Enrico Heiman della «Gazzetta» e scoop non fu. E neppure orgasmo, visto che la Federazione argentina si irrigidì e bloccò Diego, bloccò tutti. Fino, almeno al mondiale successivo, nel 1982.

Giocatore, capitano, consigliere, presidente, amministratore delegato, presidente onorario: Boniperti è stato tutto. Su quanto ha vinto, e se avesse potuto vincere di più (in Europa, soprattutto), il dibattito rimane aperto. Negli anni Settanta, quando forgiò una delle Juventus più forti di sempre, la Juventus che fornì nove titolari (titolarissimi, diremmo oggi) alla Nazionale quarta in Argentina e sei, ma senza il k.o. di Bettega sarebbero stati sette, all’Italia prima in Spagna, le frontiere erano chiuse. Con gli Agnelli alle spalle, non era poi così difficile, e Boniperti l’ha sempre ammesso: «due mezzali come l’Avvocato e il Dottore sul mercato non si trovano».

Ha rubacchiato a Vince Lombardi guru del football americano, che secondo alcuni lo aveva sfilato ad altri, lo slogan che è diventato la filosofia aziendale: «Vincere non è importante, è l’unica cosa che conta». Qualcuno l’ha preso fin troppo alla lettera (Massimiliano Allegri, dicono). Qualcun altro lo esecra sui social e ne gode in bagno. Auguri, presidente.

Più perfida di così…

Roberto Beccantini3 luglio 2018

Rieccola, la perfida Albione. Ha avuto bisogno dei suoi «assassini» storici, questa volta, per far fuori la Colombia: i rigori. Proprio loro, i killer di tanti sogni, di tante ambizioni, di tanti equivoci.

I cafeteros le rendevano James Rodriguez, che è come togliere la Gioconda al Louvre. Non solo: la crisi di nervi con la quale avevano «difeso» l’abbraccio di Carlos Sanchez, sempre lui, quello della «parata» più rosso con i giapponesi, sembrava aver scavato un confine netto, profondo. Sono passati cinque minuti, e una nuvola di vaffa, prima che Kane, l’abbracciato, potesse battere (e trasformare) il penalty. Un arbitro meno tollerante avrebbe fatto una strage (pure con Maguire e la sua simulazione, sia chiaro).

Ecco. La partita, anche perché sin lì l’avevano fatta più gli inglesi dei rivali, pareva segnata. E invece è ricominciata. La squadra di Southgate ha mollato un po’ la presa e Pekerman ha imbottito Falcao di punte: Bacca, Muriel. Sfiorato il pareggio con Cuadrado (tiro alto) e ricavata benzina preziosa da Uribe (oltre a una sventola pizzicata da Pickford), la Colombia ha pareggiato al 93’ o giù di lì su un’azione che, sacri testi alla mano, avrebbe dovuto essere patrimonio esclusivo dell’England: un calcio d’angolo. Mina, pivottone di 1,95, se li è mangiati tutti, compreso Stones. Terzo bersaglio, dopo Polonia e Senegal.

I Dele Alli, i Lingard, gli Sterling hanno sofferto la polvere da sparo che si alzava quasi a ogni tackle. Non poteva essere una notte da rime baciate. Non lo è stata. E i supplementari non potevano che prolungare l’agonia. Ai rigori, Ospina ha parato su Henderson e Pickford su Bacca. Balla la traversa di Uribe. Il suggello è stato di Dier, contagiato dal bis di capitan Kane.

E così, nei quarti, l’Inghilterra affronterà la Svezia più Ikea che Anitona (Ekberg), galvanizzatissima dai sermoni di Ibra.

Harakiri

Roberto Beccantini2 luglio 2018

Harakiri, altro titolo non mi viene. E’ stata una partita pazza che, sfuggita alle cicale, era stata raccolta dalle formiche, a loro volta riprese e poi stecchite da un contropiede coast to coast che da Tokyo a Bruxelles si rinfacceranno nei secoli, senza capire bene il movente e le movenze.

Belgio avanti, dunque, e Giappone a casa. E’ successo tutto, e di tutto, nella ripresa. Haraguchi (con la complicità di un legnoso Vertonghen) e Inui (gran tiro) avevano scardinato una difesa molto allegra, molto lenta. La fanteria leggera di Nishino, che ruotava attorno a Yoshida e Kagawa, invadeva ogni zolla, controllava ogni valico. Martinez l’ha recuperata con i cambi: i chili di Fellaini e Chadli. Tra i bocciati, Mertens: che ala non è più. Le staffette, la stazza e l’aviazione: se la zuccata di Vertonghen (a sua insaputa) ha pareggiato, nel rapporto fortuna-sfortuna, il palo di Hazard sullo 0-1, il colpo di testa di Fellaini appartiene al repertorio dei pesi massimi.

Errori, episodi, sprazzi di classe: alzi la mano chi non si è divertito. Gli sventagli e i triangoli del Giappone; i dribbling di Hazard e quelle azioni di forza, tipo rugby, pur di aprirsi un varco. I supplementari sarebbero stati l’approdo più degno, anche perché, passati col giallo (dei cartellini), i nippo erano stati massacrati dai pronostici (il mio: 60%-40% pro Belgio).

Un fantasma, De Bruyne; imbottigliato, e comunque impreciso, Lukaku. Ma preziosi, entrambi, nell’arrembaggio della svolta. Rimane il problema della copertura: da risolvere in fretta, visto il cliente che si profila nei quarti. Il Brasile.

E così dietro l’«angolo» il Giappone ha trovato l’inferno. Era il 94’, mancava un pugno di secondi; Honda non l’ha nascosta, la palla. L’ha crossata. Il destino non ha gradito. E ha affidato a Chadli il compito di urlarlo al mondo.