Tra fama e fame

Roberto Beccantini10 maggio 2017

Sarà, dunque, Real-Juventus. La squadra che ne ha vinte di più (11) contro la squadra che ne ha perse di più (6). Si parte alla pari perché, sì, il Real è sempre il Real ma la Juventus è cresciuta. L’unica «bella» in comune risale al 1998, Amsterdam Arena: decise un gol di Mijatovic in fuorigioco. Zidane era in campo con Madama, il 3 giugno sarà l’allenatore dei blancos.

L’ordalia del Calderon è durata una quarantina di minuti. Il tempo che i guerriglieri del Cholo prendessero possesso di un romanzesco 2-0 (capocciata di Saul Niguez, rigore di Griezmann) per poi essere ricacciati nella selva da un prodigio di Benzema, tipo Dybala nel derby d’andata, e dal pugnale di Isco.

Obeso dei cinque gol inflitti al Bayern e dei tre scaricati sull’Atletico, una settimana fa, Cristiano Ronaldo si è preso una notte di riposo. Non credo che possa bastare per declassarlo a riserva nell’attuale attacco juventino, come è stato scritto.

Nella storia della Coppa dei Campioni, la Juventus è stata la prima squadra a battere il Real a casa sua (14 febbraio 1962, Omar Sivori in versione all black) e l’ultima a eliminarlo (semifinali dell’edizione 2015: 2-1 allo Stadium, 1-1 a Madrid). Il Real detentore è un arsenale di talenti che quando vogliono, e in Europa vogliono spesso, sanno onorare persino il lavoro sporco. Contro la Juventus di Allegri, capace di alternare più copioni all’interno della stessa recita, dal catenaccio all’attacco frontale, sono andati in bianco Messi, Suarez, Neymar e Falcao. Unica eccezione, la rete torinese di Mbappé (ma sul 4-0 complessivo). E’ un indizio, fatene quello che volete.

Terza finale in quattro anni per il Real, seconda in tre per la Juventus. A Cardiff manca poco meno di un mese. Di solito, in questi casi, si dice che una ha più fama e l’altra più fame. Zidane cavalca la storia; Allegri, la voglia. Ne riparleremo.

Non è mai troppo Tardiff

Roberto Beccantini9 maggio 2017

Seconda finale in tre anni, la nona assoluta tra Coppa dei Campioni e Champions. Non è mai troppo Tardiff per riconoscere i meriti della Juventus (società, squadra) e di Allegri. Di quest’ultimo, soprattutto. Il cambio di modulo tra Fiorentina e Lazio fu decisivo. Non cambiò tutti, il tecnico: cambiò tutto.

Restava il Monaco, già battuto all’andata lungo l’asse Dani Alves-Higuain. Questa volta ha risolto l’asse Dani Alves-Mandzukic. Il brasiliano «chiude» le semifinali con tre assist e una volée d’alta scuola. Per un intero girone sembrava un turista. A Marassi, contro il Genoa, si ruppe un perone. Il profumo di Champions l’ha rigenerato. Potrebbe giocare mezzala, non solo ala.

Per settanta minuti, Juventus brillante e sciupona: saranno state almeno cinque le palle gol sprecate o salvate da Subasic. Il Monaco era partito benino, salvo allungarsi troppo e cedere porzioni esagerate di territorio. Il gol di Mbappé appartiene al pisolo che persino Omero, «quandoquidem», si concedeva.

Su tutti, Dani Alves e Mandzukic (occhio ai gomiti, però), poi Bonucci e Chiellini. Molto si è adontato, Higuain, per una «passeggiatina» di Glik, da prova tv, che avrebbe meritato il rosso. I derby non finiscono mai. In generale, salvo quell’inizio un po’ così e quel finale un po’ cosà, un altro pugno sul tavolo.

Ricapitolando: finalista di Champions (il 3 giugno), a un punto dal sesto scudetto consecutivo (domenica a Roma), finalista di Coppa Italia (mercoledì prossimo con la Lazio). Con il Real al Millennium stadium sarà un’altra storia, l’unica che rimarrà nella memoria, ma intanto Madama si gode il merito e il privilegio di esserci. E dal momento che, almeno per me, questa era e rimane meno forte di quella di Berlino – a centrocampo, in particolare – aver azzerato il gap tra pratiche domestiche e impegni esteri non sarà un’impresa ma rende l’idea: in Europa non è più diverso.

L’impresa (nonostante)

Roberto Beccantini7 maggio 2017

Non dire derby se non ce l’hai nel sacco. E così, dopo 33 vittorie, lo Stadium celebra il cuore di un Toro che la gemma di Ljajic su punizione – e sotto gli occhi di un signore che ne fu specialista sommo, Michel Platini – aveva lanciato oltre la traversa di Benatia e le occasioni della Juventus.

Non mi è piaciuto Valeri, debole con Lichtsteiner. Non mi è piaciuto Mihajlovic, dal momento che il tackle di Acquah su Mandzukic, quello del giallo-bis, era da «o la va o la spacca», sul filo del filo di un regolamento che, spesso, tollera tutto e il contrario di tutto. All’andata, per una scivolata analoga, il giallo se l’era beccato il croato. L’espulsione ha spaccato un equilibrio che fin lì il Toro aveva retto sul piano difensivo e organizzativo (soffrendo, rischiando, ma anche impostando).

Otto cambi, Allegri. Troppi? Tranne Higuain, per me no, ma in questi casi sono i risultati a pesare i turnover. A un certo punto, e addirittura in superiorità numerica, c’è chi ha inserito il Pipita e Pjanic e chi Benassi e Obi. Elementare, Higuain. Ancora un gol agli sgoccioli degli sgoccioli, Madama: come nel derby che, «via» Cuadrado, segnò la grande rimonta; come in quell’altro deciso dal missile di Pirlo.

Il Toro ha dato il massimo, tutti, da Molinaro a un Belotti che ha tirato poco e corso molto, passando per Rossettini, Boyè, Baselli, Ljajic. Legno a parte, la Juventus ha sprecato con Bonucci (bravo Molinaro), Lichtsteiner (bene Hart), Dybala (benone Hart, così così l’Omarino), Mandzukic, Khedira. Poi, è chiaro, la differenza delle rose era tale che lo spirito della resistenza giustifica aggettivi che alla carne dei tiranni sono negati, a maggior ragione se dal 57’ possono godere di un uomo in più.

Un disastro Lichtsteiner-Cuadrado a destra, idem Khedira. Lo scudetto è sempre lì, a portata di mano. Ma che impresa, il Toro.