L’impresa (nonostante)

Roberto Beccantini7 maggio 2017

Non dire derby se non ce l’hai nel sacco. E così, dopo 33 vittorie, lo Stadium celebra il cuore di un Toro che la gemma di Ljajic su punizione – e sotto gli occhi di un signore che ne fu specialista sommo, Michel Platini – aveva lanciato oltre la traversa di Benatia e le occasioni della Juventus.

Non mi è piaciuto Valeri, debole con Lichtsteiner. Non mi è piaciuto Mihajlovic, dal momento che il tackle di Acquah su Mandzukic, quello del giallo-bis, era da «o la va o la spacca», sul filo del filo di un regolamento che, spesso, tollera tutto e il contrario di tutto. All’andata, per una scivolata analoga, il giallo se l’era beccato il croato. L’espulsione ha spaccato un equilibrio che fin lì il Toro aveva retto sul piano difensivo e organizzativo (soffrendo, rischiando, ma anche impostando).

Otto cambi, Allegri. Troppi? Tranne Higuain, per me no, ma in questi casi sono i risultati a pesare i turnover. A un certo punto, e addirittura in superiorità numerica, c’è chi ha inserito il Pipita e Pjanic e chi Benassi e Obi. Elementare, Higuain. Ancora un gol agli sgoccioli degli sgoccioli, Madama: come nel derby che, «via» Cuadrado, segnò la grande rimonta; come in quell’altro deciso dal missile di Pirlo.

Il Toro ha dato il massimo, tutti, da Molinaro a un Belotti che ha tirato poco e corso molto, passando per Rossettini, Boyè, Baselli, Ljajic. Legno a parte, la Juventus ha sprecato con Bonucci (bravo Molinaro), Lichtsteiner (bene Hart), Dybala (benone Hart, così così l’Omarino), Mandzukic, Khedira. Poi, è chiaro, la differenza delle rose era tale che lo spirito della resistenza giustifica aggettivi che alla carne dei tiranni sono negati, a maggior ragione se dal 57’ possono godere di un uomo in più.

Un disastro Lichtsteiner-Cuadrado a destra, idem Khedira. Lo scudetto è sempre lì, a portata di mano. Ma che impresa, il Toro.

La partita «giusta» di Allegri

Roberto Beccantini3 maggio 2017

L’equilibrio ha battuto la roulette, la Juventus si avvicina a Cardiff con la forza che può trasmettere un muro così e con i gol, splendidi, di Higuain. Sì, c’è stata partita a Montecarlo, e come: ma è stata la partita «giusta» che voleva Allegri, al cui petto bisogna appendere la medaglia dell’ennesima mossa azzeccata. Dani Alves al posto di Cuadrado. E Bar Zagli terzino destro. Quanti mormorii sulle sponde del web, quanti colpi di tosse.

E invece: proprio il brasiliano, tra i migliori, ha propiziato la doppietta (e non solo). Splendidi gol, dicevo: due colpi di tacco, addirittura, nel cuore del primo (Dybala, poi Dani Alves), e il pressing di Omarino sul secondo, cruciale perché il pennello arrivasse a Dani, e da costui al Pipita (ciao Glik).

Da Cristiano Ronaldo a Higuain, ecco qua le luci al neon di questa due giorni di Champions. Guai, però, a dimenticare il resto. Le tre parate di Buffon (su Mbappé, Falcao, Germain), il cucito di Marchisio, i dentro e fuori di Dybala là dove gli avversari non sapevano che pesci pigliare.

Per cavalcare i problemi difensivi del Monaco Allegri ha tolto la profondità a Jardim, la cui squadra veniva da 12 gol nelle ultime quattro di coppa (e Mbappé da 18 su 18). Il ritorno post derby diventa, adesso, una pratica ben avviata: non è poco, non è tutto.

Pjanic, lui, ha alternato lanci al bacio a sciocchi ghirigori in zone spericolate. Di Mandzukic, il solito lavoro sporco. Bonucci e Chiellini hanno disarmato Falcao (Chiellini, anche con una gomitata: occhio). Per merito dell’organizzazione juventina, il Monaco non è stato capace di correre in verticale. La sfida non è mai sfuggita al controllo della Juventus, neppure nei momenti di sofferenza.

Una grande Juventus. Padrona delle sue rirsorse, dei suoi limiti e, dunque, signora della notte. Signora con l’elmetto, sempre.

Il suo nome era…

Roberto Beccantini2 maggio 2017

Allora: cinque gol al Bayern nelle due partite dei quarti (con uno in fuorigioco, per carità, ma nessuno è perfetto); tre all’Atletico nell’andata delle semifinali. Il suo nome era, per dirla allo Giorgio Gaber, Ronaldo Cristiano, ma lo chiamavan drago. Cos’altro aggiungere? Niente, senonché la sua tripletta ha fissato il risultato del derby, spalancando la finale di Cardiff ai collezionisti di Champions.

Ridurre l’ordalia alle imprese di uno non si può, perché a Fusignano si arrabbiano, ma non si deve neppure allargarla alle trovate degli allenatori, positive o negative che fossero, perché, in questo caso, darebbero di fuori nei bar sport. Mi butto: primo tempo Real, secondo più equilibrato ma «materassai» troppo sterili e persino troppo casti. Le due finali in tre anni, al Cholo, non le cancellerà nemmeno Domineddio, ma quello schema-tortura che era diventato il suo marchio ha rivelato una palese usura.

Il calcio di Zidane non è spaziale o speciale. E’ un calcio normale, di possesso e girotondi, sospeso tra la vena di Marcelo, il righello di Kroos e la birra di Asensio, in attesa che la palla arrivi dove è più comodo che arrivi. A 32 anni, e dopo che la sua isola gli ha dedicato un aeroporto, Cristiano fa meno l’ala e più il centravanti, ruolo al quale arrivò – a Manchester, in particolare – dopo essere nato ala (allo Sporting Lisbona). Un’agenzia di maniaci è riuscita a non inserirlo fra i primi cento dribblatori d’Europa: Leo Messi, tanto per rendere l’idea, è solo sesto. Ecco: a Cristiano rodeva proprio l’esito del «Clasico», Real-Barcellona 2-3, ma soprattutto il tabellino, lui zero e quell’altro due.

Una sola palla-gol, l’Atletico, sventata da Keylor Navas. E un solo inchino, l’arbitro: il secondo giallo risparmiato a Isco. La normalità del Bernabeu. Tutto il resto, Cristiano.