Khedire?

Roberto Beccantini27 agosto 2016

Il caldo, d’accordo, con tanto di time-out refrigerante. E il fatto che il calcio d’agosto è un calcio un po’ così, stravagante più che seducente, un’officina presa per una pista: d’accordo anche su questo.

Valeva per la Lazio, valeva per la Juventus. Ecco (anche) perché la partita è stata un noioso sudario. La Juventus era lontana, lontanissima, dalla Juventus che per un tempo, di sera, aveva spaventato la Fiorentina. Simone Inzaghi, in compenso, era passato alla difesa a tre, o a cinque in base alle esigenze, la qual cosa depone a favore del suo realismo. Dieci minuti di bollicine e poi un’attesa paziente, mirata. De Vrij controllava il traffico ai valichi, Bastos e il fratello di Lukaku mordevano i rari turisti. Con Felipe Anderson e Lulic sgommanti e invocanti cartucce.

Molti gli errori di misura. Troppi. Allegri è un cacciatore di qualità. A suo modo, con quell’aria non certo paragonabile al fanatismo di Conte (a proposito: che bello, il suo Chelsea odierno): a volte non lo capiamo, a volte non si fa capire.

L’assenza di Bonucci e di Pjanic ha tolto idee e precisione all’impostazione, affidata alle piroette di Dani Alves e al nomadismo, non sempre sincronizzato, di Khedira, Lemina e Asamoah. Al punto che, lo avrete notato, toccava a Dybala arretrare per accendere la luce. Con il risultato, spesso, di lasciare al buio Mandzukic.

Poi, è chiaro, la Juventus è la Juventus (in Italia). Ha spolverato l’argenteria, ha profittato del calo laziale, ha mandato in gol quel Khedira che, già a segno con i viola, sa inserirsi come pochi. Higuain era appena entrato. La sua dieta continua. A margine, ma non troppo, mi sono piaciuti Bastos e Benatia. Sei punti a zero: al Bar Zagli avrebbero brindato ma, per ovvi motivi, non l’hanno fatto. Italia forza.

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L’esame d’immaturità

Roberto Beccantini23 agosto 2016

Questa, poi. Avevo avvertito l’amico Fabio, romanista della Bovisa, che non sarebbe stata una passeggiata ma, giuro, mai avrei pensato a una disfatta di queste proporzioni. Altro non ha fatto, il Porto, che raccogliere i frutti dell’immaturità della Roma. Un espulso all’andata (Vermaelen), al culmine di un dominio che alla squadra di Spalletti avrebbe dovuto garantire ben più dell’autogol di Felipe, e due, ripeto: due, in un Olimpico di ghiaccio.

De Rossi, il capitano, Emerson Palmieri: entrate a martello, violente, da rosso diretto. Alibi, zero. Bavagli, per carità. Non è la prima volta, in Europa, che la Roma si butta via. Se il Bayern del 7-1 era troppo forte e il Barcellona del 6-1 di un altro pianeta, lo 0-0 casalingo con il Bate Borisov, che pure spalancò gli ottavi dell’ultima edizione, venne messo in conto alla linea morbida di Garcia. Viceversa, era qualcosa di più profondo, di più endemico.

Aggrapparsi alle emergenze renderebbe ancora più complicata la terapia. Già in avvio c’era solo il Porto, subito a segno con Felipe. E’ bastato un modico torello per disarmare una Roma inaffidabile, salvo Nainggolan e Strootman. Società, allenatore e giocatori dovranno interrogarsi. Non credo che c’entri, o basti, il mercato. Sarebbe stato sufficiente lo 0-0, mai dimenticarlo: anche se non escludo che sia stato proprio questo – con i calcoli che, come una tenera mamma, offriva alla prole – a contribuire a un impatto così molle, a una crociera così imbelle.

Naturalmente, il riscaldamento di Totti accenderà fior di dibattiti (solo al Circo Massimo, però). Naturalmente, negheremo di aver celebrato il 4-0 all’Udinese come se fosse stato inferto al Real. Siamo fatti così. Uscire dalla Champions in questo modo, per zero a tre in casa con il Porto, non è un colpo basso del destino: è una fotografia presa dall’album di famiglia.

Cicciottella

Roberto Beccantini20 agosto 2016

Il primo giorno di scuola non si interroga. Al massimo, ci si interroga. La Roma ha sofferto per un tempo l’Udinese e poi l’ha schiantata. La Juventus ha dominato per un tempo la Fiorentina e poi è calata, fino a rimetterla in gioco. Ha risolto Higuain, appena entrato in campo e già meno cicciottello. Un gol di rapina, raccolto da un angolo complicato.

Mancava Pjanic, non si è visto Pjaca, erano i soliti più Dani Alves. La prima Juventus senza il quadrilatero storico (Pirlo, Vidal, Pogba, Marchisio). Siamo ancora ad agosto e, dunque, certe flessioni sono plausibili. A patto che, appunto, siano flessioni di calendario e non di filosofia. Allegri sta cercando più qualità nella velocità: l’ha avuta per 45’. Piglio aggressivo, difesa alta, avversari in bambola. Paulo Sousa non aveva Borja Valero, colui che, per tradizione, porta il pallone e lo distribuisce.

Il recupero di Asamoah è l’indizio suggestivo, l’ennesimo gol incassato (da Kalinic, di testa, su corner) la tendenza negativa. Bene Dybala tra le linee, efficaci gli inserimenti di Khedira, artefice dell’1-0 e propiziatore del 2-1. Così così Lemina nei panni di regista, anche se un paio di staffilate dal limite ne hanno alzato la cresta. Urge un rinforzo, di ruolo.

Un anno fa, la Signora perdeva in casa con l’Udinese. Già tre punti in più, gongola il tifoso. Della Fiorentina mi è piaciuto Federico Chiesa, classe 1997, figlio d’arte. Disastrosi, in compenso, i piedi di Tatarusanu. La partita è stata avara di occasioni – reti a parte, un paio la Juventus, non un tiro i Viola – e frizzante per un’ora. Dopodiché, un gran minestrone. Sull’uomo, Alex Sandro continua a prendersi licenze «emozionanti». I cambi di Allegri appartengono al repertorio del «dimmi il risultato e ti dirò chi sei». Evra al posto di Dybala al 90’: immagino il sorriso di Trap.

Ma era il primo giorno di scuola.