Ogni tappa, una scalata

Roberto Beccantini2 marzo 2021

Ogni tappa, una scalata. La Juventus è questa, in fuga da nove anni e da mesi ansimante, sgonfia, senza un sacco di titolari (ultimo, De Ligt). Per un’ora, lo Spezia di Italiano l’ha tenuta a cuccia: un po’ di pressing, un po’ di giro palla e zero tiri, a conferma che le lavagne contano e i piedi pesano. Potevano segnare solo su errore, i campioni. Non su azione. Palo di Cristiano a parte.

Che Juventus era? La solita. Lenta, pasticciona, come se gli occhi dei suoi interni fissassero sempre le zolle e non il cielo. Dal momento che il calcio è, sì, irrazionale, ma con juicio, ecco i cambi di Pirlo. Da una miniera sventrata sono uscite due pepite: Morata e Bernardeschi. Un centravanti di ruolo – determinante, perché l’unico – e un eclettico scaduto a generico. L’hanno risolta loro. Assist di Bernardeschi per Morata, e Var finalmente propizio. Assist di Bernardeschi per Chiesa, e raddoppio: di rimbalzo, da terra, sulla replica di Provedel.

Erano stati richiamati, per la cronaca, McKennie e Frabotta. Sembravano staffette fin troppo avventate, visto l’andazzo della partita: «e invece no, invece no», cantava Mina. Sua Geometria ci ha preso.

Da quel momento la gara si è consegnata al più normale dei copioni. Spezia tutto avanti, Juventus tutta indietro. Stanca, ma con praterie così dolci da stuzzicarle l’appetito. Contropiede lungo l’asse Bentancur-Cristiano e 3-0. Scarto che poi Szczesny ha difeso addirittura da un rigore di Galabinov. Il risultato mescola la trama, confonde le indicazioni. Non ha concesso occasioni, la Juventus, e questo è un pregio. Continuano a latitare, in compenso, la precisione e la velocità nella fase di rilancio. Si procede a tocchi, con troppo rugby indietro e poco calcio in avanti. Succedeva, spesso, anche con i califfi.

Sabato la Lazio, martedì il Porto. Altre montagne. Alte montagne. Come les neiges d’Antan. La poesia aiuta, sempre.

Il fondo del barile

Roberto Beccantini27 febbraio 2021

Doveva vincere, la Juventus. Ci ha provato. Non più come sapeva: come può. Il Verona è una ciurma di pirati che fiuta dov’è il tesoro (la costruzione dal basso) e ne gode. Juric marca a uomo, non dà respiro: se non glielo togli, o ne salti i reticolati, sono guai. A Pirlo mancavano un sacco di titolari: davanti, soprattutto. Non aveva cambi. E comunque non è oggi che deve battersi il petto. Il problema è a monte, è stato il gioco: molto liquido, molto episodico. Dallo sfinimento del possesso palla ai tocchi in uscita che trasmettono i brividi che diffondevano le difese scollacciate di Zeman.

Penso che lo scudetto sia andato. Dopo nove anni, ci sta. Anche se il tifoso, in questi casi, spera sempre in una resa gloriosa, da eroi. L’ordalia è stata ispida, fisica, con i duellanti che si tiravano pezzi di pressing, nella confusione tipica degli ingorghi senza vigili. Partita bene, la Juventus ha chiuso male. Non è bastato un discreto Kulusevski, non è bastato il solito gol di Cristiano, più ostaggio che padrone della notte, al culmine di una bella azione Ramsey-Chiesa. Una delle rare.

L’Hellas, fra parentesi, ha preso un palo con Faraoni e scheggiato una traversa con Lazovic: e senza i balzi di Szczesny, chissà. Il pareggio di Barak ha fissato il confine, netto, fra il calo dei campioni e la crescita dei corsari. Se l’Inter batte il Genoa, i punti diventeranno dieci (al lordo del recupero con il Napoli). Ripeto: non era, questo, un esame di estetica. Era un match da vincere: non importa come. Da Veloso, Juric ha ricavato la visione per la riscossa. Sul fronte opposto, poco Rabiot, magri scampanellii di Ramsey. Idem da Bernarderschi e Chiesa, costretti a presidiare varchi che, piano piano, i rivali riempivano di munizioni. Non era un Verona al massimo, ma l’ha dato. Come la Juventus, inutile girarci attorno. E questo è stato il risultato.

Il «realismo» della Dea

Roberto Beccantini24 febbraio 2021

Eravamo tutti lì, con gli occhi puntati come fucili, per pesare l’Atalanta sulla bilancia dei resti dell’Impero. L’Atalanta del «marca e mordi». L’Atalanta che sbrana o si fa sbranare. Già al 18’, viceversa, finiva la poesia dell’attesa e cominciava la prosa dell’ovvio. Bella, l’azione del Madrid. Ma da giallo, secondo me, il fallo di Freuler su Mendy. E invece rosso: molto severo, molto «realista». Lo svizzero, e la chiudo qui, era l’ultimo uomo; il francese, però, si stava allargando.

Punto e a capo. Non poteva che nascere un’altra «cosa». Con Kroos e Modric che, dalla redazione, invano pretendevano scoop dagli stagisti di turno. Con Zapata presto fuori, lui quoque, e la Dea costretta a inventarsi un catenaccio che non ha mai masticato. Eppure le stava riuscendo, al prezzo di congrui brividi, arroccata com’era attorno a Toloi, Romero e Dijmsiti, le torri del fortino, con Gosens e Pessina che speravano di trovare in Muriel la solita pepita. Speravano.

Zidane non aveva un centravanti di ruolo. E così, vai con il liscio del giro-palla alla caccia di imbucate o numeri personali (ne ricordo uno di Nacho). Non sono mancate le mischie, non sono mancati i tiri, tutti o quasi murati dai difensori. Ma il domatore, nonostante le fiere in superiorità numerica, all’86’ era ancora vivo. L’ha stecchito un destro a giro di Mendy, il migliore: un terzino che Zizou spesso accentrava. Come, sull’altro fronte, Gasperini con Toloi.

Gasp, già. Ha inserito Ilicic e, visto che era in una di quelle sere che gli prende la malinconia, l’ha subito tolto: non so quanti avrebbero avuto lo stesso coraggio. Se non noi dal divano. Non è finita finché non è finita. Sarà più dura, a Valdebebas, ma se Zapata recupera e Josip si sveglia, chissà. Fermo restando che, anche per le dee, i santi in paradiso non aiutano: servono in terra.