Metà moderna, metà antica

Roberto Beccantini30 gennaio 2021

Il problema è stato il tiro. Che sta al calcio come lo scambio degli anelli al matrimonio. Ha dominato molto, la Juventus di Marassi, ma concluso poco. E così la Sampdoria è stata sempre in partita. Una squadra, va da sé, capace di battere l’Inter, la Lazio e l’Atalanta (a Bergamo).

Sotto la pioggia, per un tempo i «Pirlanti» hanno pressato e sequestrato il campo. Tutto, tranne l’area di Audero. Se è il gol è stato bello, perché veloce, verticale e affilato (Bentancur-Morata-Cristiano-Morata-Chiesa) noioso è stato, viceversa, l’accerchiamento. Courmayeursette ci ha provato in un paio di occasioni, anche se ne ho apprezzato di più gli assist.

Il piano di Ranieri era chiaro. Lasciare la palla agli avversari, farsi dominare per illuderli e, appena possibile, pizzicarli. Non è che Keita e Quagliarella creassero chissà cosa, ma sapete come va il mondo: possibile che la Old Guard non commetta almeno una fotta? Invece, zero. Bonucci e Chiellini (che «parata, su Quaglia!) sono il ponte fra il passato e il futuro. Non solo. Di più: fra il calcio del passo indietro e il calcio del passo avanti. Che non è una linea di confine. E’ filosofia pura.

Bravissimo su Cierre, Yoshida era il più tonico. Con un solo gol di margine – una miseria, rispetto alla dittatura – la ripresa si è consegnata a una simil-lotteria sulla quale la Samp, con l’ingresso di Torregrossa, si è buttata con uno zelo che, fin lì, era stato delegato esclusivamente alla fase difensiva.

La Signora, che proprio di ferro non è, si ritirata nei suoi appartamenti. Il cambio tra Arthur e Ramsey sembrava una mano di poker e i doriani, lì per lì, continuavano ad «accorciare» (Coverciano, contenti?). Sino a un contropiede made-in-Reggio lungo l’asse Cristiano-Cuadrado, firmato dal gallese di cui sopra (e da chi, se no?). Juventus «trans»: metà moderna, metà antica. Oh yes.

Tutto, tranne che noia

Roberto Beccantini24 gennaio 2021

Che sia un campionato senza tiranni, l’ha confermato la trama di Juventus-Bologna. Un’ordalia divertente, dal ritmo croccante, solcata da frequenti ribaltoni. Protagonisti, i portieri: Skorupski, soprattutto (su Bernardeschi, su McKennie e, nel finale, addirittura su Cristiano), ma anche Szczesny, artefice di un vero prodigio sul tentativo di harakiri aereo da parte di Cuadrado, bravo nell’arrivare al tiro, scellerato nella mira).

Nel primo tempo, Signora a cassetta: pressing e buone azioni, premiate dalla carambola Arthur-Schouten. Alla ripresa, per una ventina di minuti, solo Bologna. Per lo spirito trasmesso da Mihajlovic e per gli errori tecnici di Danilo, Bentancur, dello stesso Arthur. Non credo che, negli spogliatoi, Pirlo avesse detto «ragazzi, è fatta». Non credo proprio. Penso, se mai, alle ruggini e ai ruttini post Supercoppa.

Fatto sta che, a un certo punto, Sua Geometria ha richiamato Bernardeschi (insomma) e inserito Morata. Un pugno di minuti ed ecco, da un angolo, la testa di McKennie, uno spillo che, in area, buca molti palloncini. Il Bologna ha accusato il colpo e, in contropiede, Madama avrebbe potuto vendemmiare. Persino con Rabiot.

Proviamo a tirare le somme. Le partite vanno chiuse. In caso contrario, la lotteria degli episodi diventa confine ambiguo, pericoloso. Il Bologna ha perso per aver cercato di segnare, sempre, incurante della schiena che offriva ai pugnali degli avversari. La Juventus, specialmente quando Cristiano ciondola (ma che palla, a McKennie), continua ad alternare periodi di dominio (territoriale, almeno) a momenti di insidiose amnesie. Il centrocampo schierato rimane la versione più funzionale: McKennie, Arthur, Bentancur. Uno che smista (il brasiliano), uno che recupera e si butta (il texano), uno che zompa (l’uruguagio). Il resto, tutto quello che volete: tranne che noia.

Ilicic oltre Andy Warhol

Roberto Beccantini23 gennaio 2021

Nella mia griglia l’Atalanta era terza. Dietro Juventus e Inter, davanti a Milan, Napoli, Roma e Lazio. Il 3-0 alla capolista è un avviso di «garanzia» per gli avversari. Già sento il loggione: col Genoa e a Udine, però, aveva pareggiato. Certo. Di marziano ne esiste uno, va per i 36, e non sempre basta.

Il Milan di Pioli è campione d’inverno «nonostante»: lo deve alla sciatta Inter di Udine (0-0), con un Conte che non ricordo così furibondo dalla notte di Juventus-Genoa. Tornando alla Dea, è la squadra più europea che abbiamo: come gioco, come fisico, come mentalità. Gasp, poi, è uno dei rari tecnici che «fanno» punti; anche senza il Papu, ça va sans dire. C’è stata poca partita, a San Siro. Ibra o non Ibra (e, agli sgoccioli, Marione o non Marione). Il Milan era un po’ incerottato, ok, ma questi sono prezzi che pagano tutti, e allora tanto vale farsene una ragione.

Romero di testa, Ilicic su rigore, Zapata di sinistro. Josip Ilicic ha 32 anni, è uno sloveno di scuola brasiliana, lunatico e genialoide, dal bandolero stanco del passato all’artista che ormai esula dal quarto d’ora di popolarità che coniò Andy Warhol: molto, molto di più. Sconvolto e travolto dalla onda lunga del virus, era finito nel silenzio che spesso spacciamo per paura, per mistero; e talvolta, i più scabrosi, per crisi. Figuriamoci. Ilicic ha un sinistro da torero e una sterzata da slalomista. Dinoccolato, ombroso: ma quando decide, decisivo.

Pressing di gruppo e non randagio, testa alta (ad altezza Duomo, per intenderci), con il 5-0 del Liverpool a far da confine: al diavolo (appunto) le leggerezze di gestione, le turbolenze di volo. E il primo cambio si chiama Muriel, uno da 11 gol. L’Atalanta è moderna perché se ne frega delle etichette, difende a uomo, ma a uomo ringhiando in avanti, non molla mai, ti fissa negli occhi e se di fronte trova muscoli teneri come Meité, li sbrana.