Trenta e (finalmente) lode

Roberto Beccantini25 giugno 2020

La cronaca ha fatto pace con la storia, il Liverpool è campione d’Inghilterra. Non succedeva dal 1990: era appena caduto il muro di Berlino, doveva ancora nascere la Premier. Trent’anni. Un secolo fa. Da Kenny Dalglish, scozzese, a Jurgen Klopp, tedesco. Dai gol di Ian Rush alle reti di Mohamed Salah. La proprietà è diventata americana, i docks non sono più quelli, macilenti, dei romanzi, il Mersey scorre sempre placido e noioso, la Kop non è più un antro, il mondo del calcio (e non solo) era cambiato e volato via, con «destino» Manchester.

I Reds erano rimasti là (eh già): ai dribbling di Kevin Keegan, alla leggenda e agli slogan di Bill Shankly e del suo cerchio magico (Bob Paisley, Joe Fagan); alla strage dell’Heysel e alla carneficina di Hillsborough; alla scivolata di Steven Gerrard contro il Chelsea di José Mourinho.

Il Liverpool degli anni d’oro, passing game al ritmo dei Beatles, le Coppe dei Campioni del 1977, 1978, 1981, 1984, più quella di Rafa Benitez ai rigori sul Milan (2005), con Jerzy Dudek santo per una notte, fino al tripudio del Wanda, 2-0 agli Spurs. Diciotto «scudetti» e poi a dieta. Posti d’onore, al massimo, quando non mercati del disonore. Con tanta confusione, con tante delusioni. Sir Alex e ciao Pep, Arsène Wenger e Mou. Persino il Leicester di Claudio Ranieri: e i rossi sempre lì, in bilico sui cornicioni di Anfield, l’archivio (e l’Europa) come unica corda alla quale appendersi per vedere il vuoto con la rabbia dell’orgoglio.

Improvvisamente, Klopp. Un pressing feroce per strappare la saga dal sortilegio prima ancora che la palla agli avversari. Un calcio verticale, profondo, e quel tridente là (eh già), Sadio Mané, Roberto Firmino, Salah. Anche se la svolta è arrivata da un portiere (Alisson) e un difensore (Virgil van Dijk). Non erano mai stati soli prima, figuriamoci adesso. «At the end of a storm there’s a golden sky». Sempre. Trenta e, finalmente, lode.

Ah, questi dentisti…

Roberto Beccantini25 giugno 2020

Vabbè, l’avete vista tutti. Grande partita. All’Atalanta sono dentisti che appena apri la bocca trapanano la gengiva intera, non solo i molari cariati. Anche se provi a sedurli. Come la Lazio del primo tempo, due gol e la percezione che con il miglior Immobile e il miglior Luis Alberto sarebbero stati di più. Non giocava, la squadra di Simone Inzaghi, dal 29 febbraio. Un po’ l’ha pagato, ma non vorrei, così scrivendo, rigare i meriti del Gasp (squalificato).

All’Olimpico era finita 3-3 da 0-3. A Bergamo, 3-2 da 0-2. Di solito, è la miglior difesa a battere il miglior attacco. Non stavolta. Gol per ogni gusto: strafalcioni (l’autorete di De Roon, la non-uscita di Strakosha sulla sgrullata di Palomino; destri fulminanti, di Milinkovic-Savic, padrone all’inizio e poi incatenato da Toloi; sinistri trancianti, della «riserva» Malinovskiy; piatti della casa: testa di un terzino, Gosens, su cross dell’altro, Hateboer).

Un pirata salgariano, il Papu Gomez. All’Atalanta mancava Ilicic, entrato sul più bello; alla Lazio fior di titolari, Lucas Leiva su tutti. La Dea attacca anche quando difende, e per questo lascia spesso voragini dietro: penso ai contropiede laziali, alle occasioni del Sassuolo. Ma non crolla mai, neppure quando la mandano al tappeto e sembra intontita. Le panchine e i cambi, in questo calcio avventurato del dopo Covid, saranno cruciali. A questo proposito, non è che l’ingresso della «nonna» slovena sia passato inosservato.

Di fronte, due stili chiari e diversi. L’italianista Inzaghi, con la difesa a tre e un corredo di superbe ripartenze (fino a quando, almeno, la benzina circolava). L’europeista Gasperini, che pretende da ogni schema, da ogni agguato, la volontà feroce di essere superiori a tutto, perfino al destino. Ci siamo capiti.

La notizia

Roberto Beccantini23 giugno 2020

Un rigorino-Var di Cristiano, una «violinata» mancina di Dybala. La Juventus del doppio zero di coppa ha vinto così a Bologna, tappa cruciale. E’ durata 55’, ha fallito il 3-0 con il Marziano, ha preso un palo con Bernardeschi e poi si è ritirata, per i moccoli bukowskiani di Sarri. Figuriamoci se Mihajlovic può aver paura di una Signora, non importa se sopra di due gol. Niente catenaccio per scelta, zero tiri per limiti: nonostante uno Szczesny dai piedi inguardabili e un Danilo da manicomio (senza trattino, e già da rosso al primo tackle su Juwara).

La notizia riguarda il «sorteggio» sarriano. Bernardeschi e Rabiot al posto di Douglas Costa e Matuidi. Ecco, Bernardeschi: un po’ ala e un po’ mezzala in base alle lavagne e al caos, non è stato fuoco amico, per una volta. E’ stato amico, e basta. Al netto del tacco smarcante pro Omarino e del montante scosso. Rabiot, viceversa, lo trovo sempre un parametro sgonfio.

Bello il sinistro di Dybala. Così così Cristiano, spesso colto a invitare i compagni ad avanzare (immagino che qualcuno gli avrà replicato, alla Pesaola: «Ci hanno rubato “la” idea»). E Pjanic? Madama gioca attorno al suo «piattino» destro che, evidentemente, il loggione detesta più dell’impresario. Inserimenti dei centrocampisti? Qualcosina in più. Ma senza esagerare.

Dybala, per la cronaca e per la storia, occupa la stessa posizione, di tuttocampista, in cui l’avevo relegato Allegri. Riempire l’area non è un problema, resta «il» problema. Bonucci e De Ligt sono stati all’altezza, e da quattro partite la Juventus non becca gol. Il Bologna ha avuto più birra dai bebé Cangiano e Juwara, entrambi classe 2001, che non da Soriano, Sansone e Palacio. Con Alex Sandro già k.o. l’infortunio di De Sciglio, fin lì tosto eversore di Orsolini, complica il quadro terzini. La squalifica di Danilo viene in soccorso a Sarri: il sostituto, tutti tranne lui.