Opti Pogba

Roberto Beccantini22 novembre 2014

L’Italia è il paese del cattolicesimo: possiamo anche perdonare le persone. Ci provo.

Perdono Allegri per non aver dato retta al circolo dei «trecinqueduisti», frequentato ogni tanto dal sottoscritto. La stagione è lunga, la Roma forte, ma la Juventus che ha dominato la Lazio all’Olimpico è stata «sontuosa» (copyright, il gentile Cartesio). Anche in dieci. Il modulo è la cornice, non il quadro.

Perdono sir Alex Ferguson per aver spinto Opti Pogba verso Marotta. Ferguson era al ventiseiesimo anno di regno, solo la pancia piena e i ruttini possono spiegare una simile dormita.

Perdono me stesso per l’orribile sigla che mi ha ispirato il terzo gol, bellissimo. La P3: Pirlo-Pereya-Pogba. Quei tre «cosi» si son passati la palla come se fosse una caramella. E quel Pereyra è meno banale di quanto pensassi.

Perdono la Lazio di Pioli per essersi esaurita in un quarto d’ora. E per aver offerto la schiena ai pugnali bianconeri (wow).

Perdono Tevez, alla nona rete in campionato, per quel continuo rimbalzare tra l’eccellenza domestica e la normalità europea.

Perdono Damato per il secondo giallo a Padoin: era talmente sciocco che poi ha fischiato sempre pro Juve. Sartina, la dedico a lei.

Perdono l’Atalanta per aver subito un gol e mezzo in contropiede dalla Roma. Nessuna attenuante. Se mai, le aggravanti di giocare in casa e di essere passata in vantaggio.

Perdono De Rossi per eccesso di sombrero e Maxi Moralez per difetto di mira.

Perdono Ljajic, serbo nostro, per non aver fatto rimpiangere Totti. Sono già quattro, i gol di questa singolare riserva: o «contitolare», per scimmiottare quei giornali che scrivono «condirettori», così i vice direttori non s’incavolano.

Perdono Garcia perché il turnover non costituisce reato. Anzi.

Amnesy international

Roberto Beccantini18 novembre 2014

Non so se mi spiego: abbiamo sconfitto, di carambola, la Nazionale che aveva liquidato il Portogallo in Portogallo (senza Cristiano Ronaldo: ma i giocatori non contano) e pareggiato in amichevole con la Francia di Opti Pogbà. Uno a uno con la Croazia, 1-0 all’Albania: Conte dice che i conti tornano. Come risultati, sì. Come gioco, non ancora. A San Siro, molto fumo; a Marassi, molte bollicine, tre invasori fra gli applausi (degli steward, anche) e tifo più «alba» che «ita»: un segno dei tempi. E dei campi.

Non chiedevo certo la luna. Mi accontentavo del dito che la indica. L’ho avuto. Così, mi sono divertito. E commosso, addirittura, all’ingresso di Acerbi: aveva vinto un tumore ai testicoli e per questo, visto che siamo in uno strano Paese, rischiato la squalifica per doping. Nella classifica Fifa, l’Italia è 11a. e l’Albania di De Biasi, un moderno Geppetto, 48a. Giocavano le riserve. Un sacco di tiri, da una parte e dall’altra. Ci sono stati anche un palo (di Cikalleshi), errori pacchiani (di De Silvestri, di Sirigu) e palle-gol, oh yes, non quante però millantate dagli spacciatori.

In attesa che «Winston Cerci» risolva l’eterno dilemma – grande coi piccoli, piccolo coi grandi – il suo dribbling ha rallegrato la serata del sottoscritto non meno della maglia strappata e incerottata. Ai Mondiali del 1938, in Italia-Brasile, Pepin Meazza stava battendo un rigore quando gli partì l’elastico dei pantaloncini. Non fece una piega: tirò e segnò.

Ho sorriso all’intemerata pre-partita di Conte: come farò per quattro mesi senza vederli (i ragazzi)? Ci vorrebbe un amico (in Lega). Ci vorrebbero gli stage di stato. Come no. Peccato che, da tecnico della Juventus, erano proprio questi i concetti, srotolati dal ct di turno, a mandarlo in bestia. Mi è venuto in mente Oscar Wilde: «La memoria è il diario che ciascuno di noi porta sempre con sé». Sempre?

Mal di pancia

Roberto Beccantini16 novembre 2014

Mettetele pure in fila, le attenuanti: gli infortuni, da Pirlo a Pasqual, l’ultimo della serie; la papera di Buffon; il fatto che non battiamo la Croazia dal 1942. Ma poi bisogna parlare della partita, e i croati ci hanno fatto un mazzo così. Non sembrava neppure una squadra di Conte, timida e sterile com’era, né italianista né europeista. Già il gol di Candreva (il migliore, comunque) era stata una fetta raccolta, e non una torta tagliata.

Nella classifica Fifa, l’Italia è 11a. e la Croazia 14a. Con l’uscita di Modric, fin lì padrone indiscusso di San Siro, la Nazionale di Kovac ha perso bellezza, non superiorità. E’ stato il torello di Rakitic e compagni, più che il mal di pancia del nostro portierone, a condizionarci. In questi casi si urla: giocate almeno con il cuore. Gli azzurri l’hanno fatto. Ma il cuore non fa miracoli. Curiosamente, Conte si aggrappa al 3-5-2 nel momento in cui persino Allegri, alla Juventus, l’ha ammainato, e pure Mancini, all’Inter, si accinge a farlo.

Abbiamo giocato prevalentemente in contropiede. La Croazia, penso a Kovacic, ha avuto il torto di specchiarsi, rischiando la fine di Dorian Gray. Sono sincero: mi aspettavo un po’ più di Italia, ma non una partita molto diversa. Noi, modica quantità; loro, diffusa qualità. Un disastro, il centrocampo: da Marchisio a De Rossi. In assenza di plausibili geometrie, Conte si è brerianamente difeso al limite dell’area, con El Shaarawy, vice Immobile, terzino d’emergenza. La staffetta Zaza-Pellé è stata un giro di roulette.

Ci hanno pressato, ci hanno accerchiato. Per fortuna, come se il possesso palla fosse diventato anche per loro la pace dei sensi, hanno tirato poco, a differenza degli ultrà portati da casa. Lo stop di Kuipers ha consegnato l’epilogo al cannoncino di El Shaarawy e all’occasionissima di Perisic. Ci è andata bene. Resta un mistero come nei nostri stadi continuino a entrare petardi e delinquenti.