Da maglia gialla

Roberto Beccantini6 dicembre 2013

Proprio da maglia gialla. Senza Pirlo, la Juventus macina il Bologna al di là dello scarto. Non che la squadra di Pioli fosse un carro armato, tutt’altro, ma le rotazioni di Conte e la fissa del Galatasaray avrebbero potuto annacquarne le batterie. Per carità.

Venti minuti alla grande, con gol di Vidal (a quando una pacca a Marotta?), poi pilota automatico, poi occasioni sparse e sprecate (da Llorente, soprattutto, complice Curci) e il sigillo di Chiellini. Il Bologna è stato Diamanti: il suo dribbling, le sue stangate. Partite così vanno chiuse prima: in caso contrario, può sempre capitare che qualcuno faccia tombola (Cristaldo e Morleo stavano per farla).

Sono stati rari i contropiede che la Juventus ha offerto per passaggio sbagliato in uscita. Buon segno. Nella posizione di Pirlo c’era Pogba. Altra roba. Vi raccomando la personalità del gruppo e, a sprazzi, il gioco, il ritmo. Bene Peluso in fase di rifinitura (!), benone Ogbonna nel cuore del bunker: i suoi lanci, alla Bonucci, sono stati una piacevole sorpresa. A Marchisio, in ripresa, continua a mancare l’ultimo guizzo. Vidal ha confermato di avere un senso di smarcamento fuori del comune.

Quaranta punti in quindici gare, settima vittoria consecutiva, 15 gol a 0. Dopo Firenze, è cominciato un altro film. A Istanbul la musica sarà diversa: sai che scoperta. La Juventus avrà, dalla sua, due risultati e un impianto di gran lunga superiore. Il Galatasaray di Mancini, il pubblico e i solisti (Drogba, Sneijder). La Juventus ci arriva in salute, ma in Europa si ammala spesso.

E Mazzoleni? Mediocre. Non ho capito l’ammonizione a Chiellini e, come mi suggerisce il lettore Bilbao77, manca il secondo giallo a Peluso, subito «espulso» da Conte. E poi dicono che i miei pazienti sono faziosi.

Saper soffrire

Roberto Beccantini1 dicembre 2013

Un anno fa, alla quattordicesima, la Juventus perdeva a San Siro contro il Milan: rigore (ascellare) di Robinho. Questa volta ha battuto l’Udinese, in casa, con lo stesso scarto. Ha risolto, agli sgoccioli degli sgoccioli, dopo che Buffon era andato oltre i suoi stessi pugni, Fernando Llorente. Guidolin è un signor allenatore e l’ha dimostrato. Difesa e contropiede. Conte ha perso Pirlo, un Pirlo in forma, e ne ha pagato il fio. Non mi stancherò mai: da Lichtsteiner e Asamoah a Padoin e De Ceglie, il mio regno per un dribbling.

Lo zero a zero sembrava scolpito, e sarebbe stato legittimo, equo. Più possesso la Juventus, ça va sans dire, più occasioni l’Udinese (almeno, fino, ai titoli di coda).

Conte ha chiuso con un estemporaneo, per lui, 4-3-1-2. «Lotta continua» Tevez dietro a Llorente e Quagliarella. La variante ha prodotto confusione; e dalla confusione è nato l’episodio-chiave. Sei vittorie di fila: 2-0 al Genoa, 4-0 al Catania, 1-0 a Parma, 3-0 al Napoli, 2-0 a Livorno, 1-0 all’Udinese. Tredici gol a zero. Mettiamoci pure i refoli della sorte, gli inchini del destino: senza esagerare, però.

Il mercoledì di Champions aveva zavorrato Vidal, Pogba, costretto in panni non suoi, Marchisio (al di là delle bollicine introduttive). Per tacere dei terzini: scusate, ma li chiamo così. Poteva mancare l’implacabile scarabocchio di Bonucci? No che non poteva. La trama, in generale, mi ha ricordato Juventus-Catania 1-0, quella decisa da Giaccherini. Con la differenza Buffon.

Dall’Europa al campionato, esistono anche gli avversari: mai dimenticarlo. La Juventus sa soffrire. Può giocar male, e ci sono stati scorci in cui l’ha fatto anche stavolta, ma poi, è chiaro, più occupi il cuore del ring e spingi il rivale alle corde, più rischi che un contropiede ti pugnali o che una mischia ti baci.

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Senza esagerare

Roberto Beccantini30 novembre 2013

Nutro qualche dubbio sul fatto che Adriano Galliani sia stato il miglior dirigente italiano dell’ultimo trentennio. Per carità: i numeri sono numeri, e 28 trofei in ventisette anni costituiscono una scorciatoia per l’eternità, soprattutto in un Paese come il nostro, di bocca buona e schiene generose.

Il suo avversario era la Triade juventina, mica l’asilo Mariuccia. Nel tempo, le sue corsie preferenziali (anche troppo?) sono diventate Enrico Preziosi e Mino Raiola. Ha ragione, zio Fester, quando si ribella, non già al ricambio generazionale, ma al modo, allo stile. Buona uscita o non buona uscita.

Sarebbe piaciuto a Niccolò Machiavelli un dirigente così. Simbolo del potere forte e, grazie alla tv, immagine di un potere quasi formato famiglia (le cravatte, le classifiche ad squadram, le esultanze da ultra). Non discuto la competenza, i colpi, anche se Andrea Pirlo e Clarence Seedorf gli vennero regalati da Massimo Moratti. Discuto, se mai, la beatificazione. Adriano ha potuto contare sui quattrini del Berlusconi più onnipotente, su alcune leggine mica male (la spalmadebiti, do you remember?), sul conflitto di cattedere, specialità della casa: amministratore delegato del Milan, Galliani è stato un dirigente molto «all’italiana», uno e trino secondo modalità e comodità, prolunga aziendale del Cavaliere, nel calcio e nelle tv del calcio, nonché presidente della Lega, poltrona mollata soltanto dopo Calciopoli: e non certo di sua volontà.

Occhio, però, anche al resto, non proprio spiccioli: le ombre sulle luci di Marsiglia, lo scandalo Lentini (azioni del Toro girate al Milan a scopo cautelativo, roba da retrocessione fulminante), la B di Calciopoli schivata esclusivamente grazie al preservativo Meani e al diversivo Berlusconi. E’ stato un grande, sì, ma senza esagerare.