Il dubbio

Roberto Beccantini4 gennaio 2013

Le prime volte meritano sempre rispetto. Soprattutto, quando c’è di mezzo il razzismo, cancro che in Italia continua a trovare facili spunti. La notizia della sospensione di Pro Patria-Milan ha fatto il giro del mondo. L’importante è che il segnale forte (partita spezzata per reiterati buuu a Boateng e c.) faccia aggio sulla circostanza debole (era un’amichevole). E ancora più importante sarà che, tra i segnali forti, la volontà di combattere il becerume hooligan (match fermato) prevalga sulla voluttà – del becerume hooligan – di tenere in ostaggio le maggioranze «per bene» (match fatto fermare).

Diranno i milanisti: non siete mai contenti. Hanno ragione. Al posto dell’arbitro (e di Allegri) avrei interrotto il gioco ai primi insulti contro Boateng ma poi, per rispetto del resto dello stadio, lo avrei ripreso. O almeno ci avrei provato. Me ne sarei andato solo di fronte a un’altra pioggia di cori. Il codice Fifa parla chiaro.

Sono anni che in Italia ci tramandiamo il dilemma: continuare o smettere, smettere o continuare. Dal caso Morosini al caso Busto: la differenza dell’argomento, profonda e lacerante, non si sottrare alla stessa «ratio». Come onorare un morto sul campo, fermandoci tutti per un giorno o fermandoci tutti per un minuto di «quel» giorno? Come reagire alle curve che brindano a Hitler e oltraggiano la pelle degli uomini, lasciandoli padroni del destino, come a Busto, o portandoli in galera, come in Inghilterra?

Bando alle chiacchiere. Meglio la cesura di un’amichevole che il nulla di sempre. Teniamoci il messaggio. Ai giovani, agli anziani, ai neutrali, ai politici, alle forze del calcio e della polizia. Attenzione, però: in un Paese normale, lo stop di Busto diventerebbe «legge» a tutti i livelli, dalla serie A agli oratori. Inclusa la pallonata giustificazionista di Boateng. Uhm. Dal momento che siamo in Italia, rimane il messaggio, duro, secco, ma anche il dubbio, ancora più secco.

Oggettivamente

Roberto Beccantini28 dicembre 2012

Non è un argomento festaiolo, ma se ne parla anche sotto l’albero. La responsabilità oggettiva. Il Napoli, coinvolto in Scommessopoli, l’ha presa a calci, invocando la separazione dei «mali». E’ un tema ricorrente, implacabile. C’è quella «diretta», quella semplicemente «oggettiva» e quella «presunta»: mille sfumature di grigio. L’ha citata anche Andrea Agnelli, nella sua agenda.

Parliamone. Discutiamola. Guai, però, a polverizzarne l’ossatura. Non sarebbe un nuovo inizio. Sarebbe un’altra fine. Dal 1980 a oggi, nonostante la responsabilità oggettiva, e sottolineo: nonostante, il calcio italiano ha conosciuto lo scandalo del toto-nero, passaportopoli, doping farmaceutico e doping amministrativo, premiopoli, calciopoli e, appunto, scommessopoli. Provate a immaginare uno sport che vi rinunziasse: uno sport in cui eventuali combine – o tentatitivi di – venissero scaricate esclusivamente sui tesserati e non più sui club. Povero sport.

Un buon avvocato vale ormai quanto un buon centravanti. Ci sono casi limite che hanno messo in crisi anche il sottoscritto, dalla celeberrima monetina di Alemao al feroce tavolino di Cagliari-Roma: giusto punire il Cagliari, sbagliato premiare la Roma.

Se ogni partita fa storia a a sé, figuriamoci ogni disputa, ogni controversia, ogni deferimento. Vale, per la responsabilità oggettiva, l’aforisma di Winston Churchill sulla democrazia: il peggiore dei sistemi politici, tranne tutti gli altri. Si cambi, al limite, il percorso della giustizia sportiva. Lo si renda meno frenetico, si sterilizzi l’omessa denuncia, si dia più spazio alle difese, soprattutto adesso che la figura del pentito ha coinvolto – e, in alcune circostanze, stravolto – un iter forzatamente «abbreviato». Ma la responsabilità oggettiva, no: è l’ultima stampella.

Senza aiutini

Roberto Beccantini22 dicembre 2012

Roma-Milan non mi ha strappato dalla sedia. Ha vinto la squadra più scaltra, più concreta, quella che ha giocato più di testa (tre gol su quattro) e con la testa. D’accordo, tripletta in mezz’ora, ma non è stato un bombardamento: un corner, un cross, un taglio. Zeman aveva lasciato il centro del ring ad Allegri. Restano zeminiani i risultati, spesso obesi, un po’ meno l’atteggiamento spavaldo, la difesa a metà campo, la voluttà di sporgersi dal davanzale che ne avevano fatto un allenatore diverso, un maestro tutto d’un dogma.

Ci scanneremo sempre, su Zeman e per Zeman. Chi pro e chi contro. Il Milan gli ha dato una mano. Se non segna El Shaarawy, sono dolori. Un disastro, la difesa. Un disastro, Montolivo. Le quattro vittorie della riscossa erano state scolpite da una modica crescita, dai numeri del faraone e da aiutini assortiti. Liberissimi, i trombettieri, di privilegiare le visite pastorali del Cavaliere. Ar-core non si comanda.

La Roma è a meno quattro dal secondo posto, il Milan a meno nove. La Roma è un impasto di qualità disordinata, capace di molto, attratta dagli eccessi, in balìa di un vittimismo che ha spesso contribuito a frustrare le ambizioni e ad allontanare i traguardi. Con Zeman ha 32 punti, con un altro allenatore quanti ne avrebbe? De Rossi titolare ha fatto un partitone (con dedica, immagino…). Certo, anche all’Olimpico la rotta l’hanno indicata gli episodi, e proprio per questo sarebbe ridicolo prendere per oro colato la «rimontina» finale, agevolata dal rosso a Marquinhos.

Altro che attacco: fossi in Galliani, a gennaio terrei d’occhio i «saldi» difensivi. Allargando il discorso, a tutte le sfidanti mancano l’equilibrio e la continuità della Juventus. Quella continuità che non abbandona Francesco Totti, 36 anni e 221 gol. E tornando a De Rossi, mai più riserva, Scommettiamo?