Si va tra la perduta gente

Roberto Beccantini22 August 2025

Adesso che tutto (ri)comincia, sembra già tutto finito. E’ il calendario, bellezza, come diceva Bogart della stampa. Il calendario e il mercato. Le idi Di Marzio incombono da mesi, e per questo stilare una griglia, oggi, è un gioco senza senso. Ma dal momento che sono proprio i giochi senza senso a titillare il senso comune, ecco la mia. Provvisoria, fragile, scostumata.

1) Napoli, 2) Inter, 3) Milan, 4) Juventus, 5) Atalanta, 6) Roma, 7) Fiorentina, 8) Lazio, 9) Bologna, 10) Como, 11) Torino, 12) Genoa, 13) Udinese, 14) Parma, 15) Sassuolo, 16) Cagliari, 17) Verona, 18) Lecce, 19) Pisa, 20) Cremonese.

Arrigo, da Fusignano, invoca più velocità, più idee. Dodici club su venti hanno cambiato allenatore. I 34 anni di De Bruyne, i 35 di Immobile, i 39 di Dzeko e i 40 di Modric riassumono lo spirito del tempo (in tedesco, «zeitgeist»): non più paradiso, non ancora in inferno, ma un limbo, la nostra serie A, che offre clisteri decenti, se non (più) seducenti.

Le squadre sono cantieri. Conte Dracula ha perso Lukaku, le staffette Inzaghi-Chivu, Conceiçao-Allegri, Ranieri-Gasp, Gasp-Juric, Baroni-Sarri e Palladino-Pioli infiammano i loggioni, agitano i pulpiti, sferzano le tastiere. Ci si interroga sugli algoritmi di Comollì, sul Var spiegato al popolo (con i familiari del tempo effettivo in lutto), sul peso dei contratti (Vlahovic, Lookman, Donnarumma), trascurando le scadenze. Maradona, nel 1989, era «già» del Marsiglia di Tapie: Ferlaino, nel dubbio, gli mostrò una firma e una data. Diego capì.

Sventola, a Sassuolo, l’ultima bandiera: Berardi. Le conferme di Kean, del Como indonesiano di Fabregas e del Bologna tracceranno confini cruciali. On y va: a 50 anni dalla Supercazzola di Amici miei. Con scappellamento a destra (era il 1975: che fiuto).

Mai dire ormai

Roberto Beccantini14 August 2025

Scriptum post. Com’è bello, com’è facile. A Udine, la finale di Supercoppa. Un piccolo riassunto di vita e di sport. Mai dire mai. Mai dire ormai (è fatta). Paris-Tottenham 2-2 da 0-2, con i rigori a spremere il can-can della sentenza (4-3).

Ricapitolando: per un’ora abbondante, Spurs padroni di tutto, dai cozzi fisici alla tattica, il miglior attacco è la difesa (gol di Van de Ven e Romero, gli stopperoni), Bentancur gestore là in mezzo, Richarlison più sponda che onda, Paris Saint-Qatar impiombato dai «dazi» americani di Infantino (13 luglio, finale del rodeo mondiale), con la sindrome inglese a zavorrarne i ruttini (Liverpool, Aston Villa, Arsenal in Champions, Chelsea a New York) e le scelte di Luis Enrique, bé, insomma. Per tacere delll’assenza di un piano B: se il fioretto non basta (può capitare persino a «Dembappé e a Kvara), buttarsi sullo spadone di un centravanti old fashion fa così tanto Jurassic Park?

Mi passi gli stenografi, avrei urlacchiato, giulivo, al centralinista. Già. Improvvisamente, il finimondo. Londra, abbiamo un problema: per essere Frank, mister Thomas non azzecca i cambi e i suoi finiscono a catenaccio; don Lucho, in compenso, non ne sbaglia uno – da Fabian Ruiz a Lee (sinistro della riscossa) e a Gonçalo Ramos (sgrullata dell’aggancio). Mi ripassi gli steno, avrei urlato, isterico. Poi i rigori, baci parigini.

E qui (ri)entra in scena il portiere. Chevalier. L’erede del deposto Donnarumma. Un paio di svolazzi, la paperona su Romero, un penalty parato (a Van de Ven, sfizio del destino). Dicono che Gigio, in scadenza nel 2026, abbia sparato cifre folli. L’allenatore lo ha liquidato con un eccesso di vaselina «aziendalista» che, nei suoi panni, avrei dedicato ad altri bruciori. «Grande portiere, ma non quello che mi serve». La storia scritta con i piedi, obbligatori e non più semplicemente necessari, ne ha preso nota. Ringhio smoccola, Slavina frigge.

Ho visto un re

Roberto Beccantini21 June 2025

Bob Dylan aveva, della caccia ai ricordi, un’idea non proprio vaga: «Preferisco vivere il momento che farmi prendere dalla nostalgia, che per me è una droga, una vera droga, di quelle che si iniettano in vena. E’ vergognoso. La gente si fa di nostalgia come se fosse morfina. E io non voglio esserne lo spacciatore».

Però Michel Platini è Michel Platini. E i suoi 70 anni, compiuti oggi, meritano una piccola evasione. Piccola, per carità, visto lo scorcio storico che gli fa da cornice, bombe di qua bombe di là. Eduardo Galeano ha scritto: «Non sono altro che un mendicante di buon calcio. Vado per il mondo col cappello in mano, e negli stadi supplico: una bella giocata, per l’amor di Dio. E quando il buon calcio si manifesta, rendo grazie per il miracolo e non mi importa un fico secco di quale sia il club o il Paese che me lo offre».

Già nel 1968 Enzo Jannacci cantava «Ho visto un re». Noi lo vedemmo negli anni Ottanta. Più fortunati, ne vedemmo un fracco: Michel, Diego Armando, Zico, Falcao. Sembrava già dell’Inter e invece finì a Torino, dall’Avvocato. L’ho pensato nello sbirciare la punizione di Leo Messi al Porto, nel torneo Getta e Usa from America. Ecco: la Pulce di sinistro. Platoche di destro. Parabole regali. E poiché il destino sa essere cinico e caro, dalla più «banale», scivolata tra i guanti dello spagnolo Arconada, ricavò addirittura la corona europea dell’orwelliano 1984.

Ognuno coltiva i suoi penati. Ci mancherebbe. Se Omar Sivori era il «dieci» amante con il quale i tifosi avversari fornicavano di nascosto, Platini è stato l’eleganza fatta carne. Dalla puzza al naso, francese o italiano in base alle lune. Segnato dall’Heysel, mollò a 32 anni, nella pioggia e nel fango del Comunale. Fuoriclasse, dirigente e «prigioniero», chissà cosa farà della sua quarta vita. Intanto, tra calcio champagne e calci nel sedere, auguri.

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