Ciao, guerriero

Roberto Beccantini16 dicembre 2022Pubblicato in Per sport

Ha combattuto fino all’ultimo, e non è solo un modo di dire. Lui, che a raccontar guerre, quelle vere, avrebbe potuto tenerci svegli per notti. Se n’è andato Sinisa Mihajlovic, giocatore forte e allenatore girotondo; ultima tappa, Bologna. Serbo e non servo, con gli spigoli che gli slavi si portano dentro, pronti a trasformarli in aculei, figlio di un tempo che non riusciamo a domare e dal quale, come dimostra l’aggressione della Russia all’Ucraina, preferiamo farci dondolare.

Da hombre qual era, fu lui stesso a dirci di cosa soffriva: di leucemia, porca miseria. Venne ricoverato al Sant’Orsola, tornò in panchina, lo ricordo al Bentegodi col berretto, la prima volta del «dopo», ricadde, risorse, fino a un esonero che sapeva di classifica ma anche di ospedale.

Aveva 53 anni. Uno di noi, Terzino, battitore libero, un sinistro che abbiamo decorato con aggettivi bellici, tanto per rimanere in tema: esplosivo, dinamitardo. Le sue punizioni erano cannonate nel senso letterale e letterario della parola. Legò il nome, la malizia e le risorse all’epoca d’oro della Stella Rossa di Belgrado, con la quale vinse la Coppa dei Campioni – a Bari, contro il Marsiglia – e la Coppa Intercontinentale, sempre nel 1991. In Italia, ha giocato per Roma, Sampdoria, Lazio e Inter, laureandosi campione con le aquile di Sven-Goran Eriksson, nel 2000, e con l’Inter, a tavolino, nel 2006. E poi, ancora con la Lazio, una Coppa delle Coppe, l’ultima della serie, nel 1999, e una Supercoppa d’Europa. Più una pila di coppe domestiche tra Lazio e Inter (fu spalla di Roberto Mancini).

Ha allenato Bologna, Catania, Fiorentina, Serbia, Sampdoria, Milan, Torino, Sporting Lisbona (nove giorni, record dei record), ancora Bologna. Entrò nel ballottaggio dei tecnici cui la Juventus aveva pensato per rimpiazzare il fuggiasco Antonio Conte nell’estate del 2014. Nato nella tragica Vukovar, figlio di madre croata e padre serbo, non ha mai porto l’altra guancia. E’ stato duro, rude. Testimone di una fine, la Jugoslavia, e di un inizio, la Serbia e il resto. Ma sempre sé stesso. Un valore e un prezzo. Aveva occhio (nel Milan, lanciò un bebé di nome Gigio Donnarumma), praticava il calcio insegnatogli dalla vita: attacca, se vuoi difenderti; difenditi, se vuoi attaccare.

Avrebbe fatto sue le parole che Philip Roth, grande scrittore americano, suggerì al suo biografo, Blake Bailey: «Non voglio che mi riabiliti. Solo che mi rendi interessante».

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