Al dente

Roberto Beccantini15 gennaio 2025

Non avrei tolto Lautaro, concessionario di un gol, di sponde e di recuperi, ma Inzaghi non è certo diventato una schiappa per questo rilievo da sofà. Piuttosto: Inter-Bologna 2-2. Partita ardente e al dente, sull’onda di Bologna-Roma 2-2 e Atalanta-Juventus 1-1. I campioni restano favoriti (per me), anche se il pareggio li lascia a tre punti dal Napoli (con una Firenze da spendere).

Tanto per cominciare: zero ammoniti. Scherzetto o Pairetto? E poi gli stili: differenti, ma non indifferenti. Italiano va matto per il palleggio di centrocampo, a confondere i dirimpettai, e il pressing cadenzato, ora rock ora liscio. Si aggiudicano, i suoi, il primo quarto d’ora con il Sommer-più-palo di Moro e la zampata di Castro, in estirada e nella pancia di un’area gonfia di stinchi.

Simone: attesa sulla tre quarti, e via col vento appena Barella, di corsa, e Zielinski, di tocco, squarciano la tela dei rivali. Non a caso, l’1-1 e il 2-1, firmati da Dumfries e dal capitano, affiorano da sgargianti «transpiedi», sintesi tattica di transizioni e contropiedi, nella speranza di non rigare la suscettibilità né delle une né degli altri.

Mancavano Calhanoglu e Mkhitaryan, fior di colonne, ma io sono giocatorista e, dunque, non faccio testo. Una volta in vantaggio, e per giunta al 45’ + 1, minuto mai banale, avrei scommesso su una gestione meno turbolenta. «Colpa» del Bologna. Sempre saldo sul ring: persino alle corde, quando ci finiva. Parava Skorupski, salvava Sommer: ognuno, alla sua maniera, ci provava. Sino alla sciabolata di Holm (complice Bastoni), dopo che Orsolini aveva spremuto Dimarco, cruciale nei blitz permeabile nelle chiusure.

I cambi si limitavano a vidimare il risultato. Se l’Inter ha pagato il grigiore di mezzo e i ruttini della difesa, il Bologna ha strameritato di uscire da San Siro com’è uscito: tra gli applausi di chi se ne intende.

Piccolo pari avanti

Roberto Beccantini14 gennaio 2025

Lugete o Veneres Cupidinesque, perché sì, è il tredicesimo pareggio di Madamin, ma questo – se non altro – non è di latta. L’ha conteso, con ardore, all’Atalanta, e per giunta a Bergamo. Sia chiaro: con il solito «format» – in vantaggio, rimontata – ma ripeto, sono state ben altre le X di cui arrossire (Cagliari, Parma, Lecce, Venezia).

Gasp è lì dal 2016: si sente. Thiago dall’estate 2024: si vede. Equilibrio per un tempo, con la Dea che spinge e gli avversari che la pungono. Nella ripresa, big bang e bagliori da notte di San Silvestro. Occasioni di qua, occasioni di là, voli di Carnesecchi e Di Gregorio, palo di Kalulu (di testa, su corner), rete dello stesso Kalulu, imbeccato da McKennie («falso» dieci), poi Mottiani in trincea sino alla torsione aerea di Retegui: alla Bettega? alla Riva? alla Pulici? alla Boninsegna? Ognuno scelga il suo referente e così sia.

Retegui: 13 reti, capocannoniere solitario. Era entrato, al 65’, per un De Ketelaere crepuscolare (capita). I cambi. Gasp si è giocato Samardzic, il Chapita, Bellanova, Hien e Zaniolo. Hugeux (vice di Thiago, squalificato) non più di Douglas Luiz, Mbangula e Fagioli. Meditate, pazienti, meditate.

Risultato in bilico sino agli ultimi spari, di Zaniolo e Yildiz, ora qua ora là come sempre dovrebbe (o dovrebbero suggerirgli). La sentenza è rimasta a lungo nascosta nella giungla dei ribaltoni. Con i portieri, segnalo Gatti e Kalulu, Locatelli e Thuram, gli strappi di McKennie. Di «Flopmeiners», fischiatissimo, rammento una «parata» su Lookman: stop. E dell’ambulante Nico, un sinistro dal limite. Fuori ruolo, ok, ma insomma. Sul fronte opposto, preziose le spallate di Kolasinac, le serpentine di Samardzic e, ça va sans dire, il rambismo di Retegui. Si era cominciato senza centravanti. Poi uno è apparso. Non era Vlahovic.

Copio e incollo

Roberto Beccantini11 gennaio 2025

Hasta el empate siempre. Derby o non derby, il solito protocollo made in Thiago. Gol-lampo di Yildiz (molto bello, dal limite e di sinistro), palleggio e traccheggio fino all’1-1 di Vlasic, al 45’ + 1, stop di destro e drop di mancino: chapeau pure al croato.

Morale: dopo aver resuscitato il Milan a Riad, la Giovin Signora risveglia anche il Toro, non pervenuto all’andata. Un Toro che, disposto a quattro in difesa, Vanoli aveva invitato a essere aggressivo, coraggioso. E per un tempo lo è stato. Il dopo Zapata e il dopo Bremer hanno lasciato calce viva, e l’assenza di Vlahovic – non importa «quale» – toglieva profondità a Madamin. Da falso nueve, Nico Gonzalez ha cercato di adescare Coco e Maripan per favorire i blitz di Mbangula, che mai avrei tolto, di Yildiz, di Koop (capitano, il 6° della stagione). Titolare, Douglas Luiz ha brasilianeggiato ai due all’ora, estraneo ai 50 milioni scuciti.

Qua e là, scintille d’archivio. Subito, tra i granata e McKennie; poi tra Motta e Vanoli, espulsi per eccesso di zolfo. Il Toro, lontano dalla storia ma dentro le esigenze. La Juventus, padrona della ripresa ma con obici e mira quasi mai all’altezza: una palla-gol (di Nico, sventata da Milinkovic-Savic) e proiettili randagi di «Flopmeiners» (ora avanti ora indietro, né regista né mezzala), Weah, Cambiaso, murati in scioltezza dal portierone.

L’uscita di Karamoh e l’ingresso di Pedersen erano un indizio preciso: serbatoio in riserva, tutti indietro. Per provarci, la Juventus ci prova sempre. Ma sempre a suo modo: saltando addosso alla trama salvo scendervi al primo scroscio. Sono già dodici i pareggi e, dunque, il «mio» quarto posto risulta accerchiato da una orda di Sioux.
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