Vialli, un guerriero borghese

Roberto Beccantini6 gennaio 2023Pubblicato in Per sport

Ogni giorno cade una foglia, in questa antologia di «Spoon River» che lo sport scrive, riscrive e corregge a ritmi quasi isterici. Sinisa Mihajlovic il burbero; Vittorio Adorni il signore; o Rei Pelé il massimo; Ernesto Castano il duro. Li ha raggiunti Gianluca Vialli, come era nell’aria da tempo. Aveva 58 anni, l’ha consumato un tumore al pancreas. Si è spento a Londra, città che aveva eletto a castello della maturità. Lascia la moglie, due figlie e gli agi di una famiglia che non gli hanno impedito di diventare «grande».

In un calcio di fighetti, è stato un «guerriero borghese». Trascinava i compagni, sfiancava gli avversari. La Cremonese di «papà» Domenico Luzzara, il giardino incantato della Sampdoria e dei «sette nani», sotto la regia di Paolo Mantovani, Paolo Borea, Vujadin Boskov e Narciso Pezzotti, con Roberto Mancini a fargli da gemello, coppia di «fatti» che la storia avrebbe agghindato come un albero di Natale. Poi la Juventus di Giampiero Boniperti, altro presidente di una volta, che lo aveva smarrito per una dritta errata (e recuperato a suon di miliardi). Quindi l’irruzione della Triade, la saudade genovese che diventa adrenalina. Non legò col Trap, fu Marcello Lippi a ricaricarlo.

La finale di Coppa dei Campioni persa a Wembley con la Samp, anche per colpa sua (come avrebbe confessato) ma soprattutto per la bomba di Ronald Koeman, segnò un confine drastico, profondo. Finiva la scapigliatura. Cominciava il servizio «militare». Juventus, Chelsea, tra i primi a esplorare la Premier, giocatore allenatore, scudetti (quello, mitico, del Doria), Champions (da capitano juventino, nel ‘96), coppe su coppe fino al Watford e al licenziamento inflittogli da Elton John.

I suoi muscoli, e quelli di Alessandro Del Piero, incuriosirono Zdenek Zeman e Raffaele Guariniello al punto da scatenare sospetti e processi, tra abuso di farmaci e doping, epo millantata (e poi esclusa), ombre, prescrizioni. Fino a quando, nel febbraio del 2019, la «Gazzetta dello Sport» e la famiglia Facchetti non gli consegnarono «Il bello del calcio», premio dedicato alla memoria di Giacinto. E allora? Gianluca, sorridi di noi.

Vialli. In Nazionale furono più spine che rose. Totò Schillaci gli rubò la vetrina delle notti magiche; Arrigo Sacchi, fondamentalista, ne spense il fuoco azzurro. Succede, quando l’io diventa ego. Fine dicitore, Gianluca lo è stato soltanto dopo, da opinionista tv di Sky, scrittore di libri («The italian job», con Gabriele Marcotti) e dirigente accompagnatore, erede di un certo Riva, Gigi. Non in campo. Lì era un belva. Uno scultore, non un pittore. Uno che assestava martellate davanti, non coltellate dietro. Uomo d’area e di mondo. Che non tradì il Mancio neppure per Roby Baggio.

Di lui custodisco, geloso, un frammento strano, piccolo. Era un sabato di normale vigilia. Dal Vaticano era uscito l’ennesimo catenaccio contro le partite la domenica di Pasqua, o qualcosa di simile. Mi dissero, a «La Stampa»: prova a sentire Vialli. Corsi allo stadio, i giocatori della Juventus stavano salendo sul pullman che li avrebbe portati in ritiro. Chiamai Gianluca. Si voltò, scese. Mi scusai per la domanda che gli avrei fatto, visto il momento decisamente «laico». Sorrise. Rispose. E poi via di corsa, a buttar giù il quarantello agognato.

Gianni Brera lo ribattezzò «Stradivialli», in onore di Antonio Stradivari, bardo cremonese, anche se proprio un violino, Gianluca, non era. Campione d’Europa da capo-delegazione proprio là, a Wembley, dove il sogno era diventato incubo. Il destino lo marcava stretto, come i rudi stopper con i quali faceva a botti, se non a botte. Rispettoso, rispettato, gli piaceva guadagnarsi la pagnotta. Non era un santo, non era un eroe. Era tosto, era vero, era scaltro. Non ci sono parole, se non queste di Joe Louis, il «bombardiere nero» dei pesi massimi: «Ho fatto il meglio che potevo con quello che avevo». Gli sarebbero piaciute.

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