Responsabilità oggettiva, per forza

Roberto Beccantini6 giugno 2011Pubblicato in Calciopoli

Da Calciopoli 1 e 2 all’ultima puntata del Calcio-scommesse, passando per Bilanciopoli e Passaportopoli, la domanda è sempre la stessa: ha ancora senso la responsabilità oggettiva, in base alla quale tutti pagano per pochi? La risposta è sì, ha ancora senso, e sempre ne avrà.

Sarà pure uno strumento truce, dal momento che una società può essere penalizzata anche per gli atti criminali di un dipendente, uno solo, ma provate a trasferire il calcio, «questo» calcio, il nostro calcio, in un mondo privo di una simile prigione. Io compro un arbitro o un avversario, tarocco una partita e, visto che ci sono, ci scommetto pure sopra; la giustizia sportiva mi pizzica, io pago, la mia società no. Voce del popolo: ma così ci rimettono i tifosi. Vero. Ogni tanto, però, occupiamoci anche degli «altri» tifosi: di quelli, cioè, la cui squadra ha subìto l’oltraggio della combine. I soldi e le tecnologie hanno allargato le tentazioni e accentuato i metodi per barare. Ove non esistesse la stampella della responsabilità oggettiva, il calcio finirebbe in balìa di veri e propri professionisti del dolo, pronti a tutto, e per quel tutto clandestinamente pagati. Fuor di metafora: tu, faccendiere, mi compri la partita e confessi che è stata un’iniziativa personale; io, dirigente, ti offro gli avvocati più agguerriti e l’esilio più dorato. Occhiali scuri, e qua la mano.Sto con Winston Churchill e il suo paradosso: «La democrazia è il peggiore sistema, esclusi tutti gli altri». Calza a pennello: in teoria, la responsabilità oggettiva dovrebbe scoraggiare i lestofanti. In pratica, non esiste alternativa a quel minimo di etica che ogni sport, per gonfio di quattrini che sia, deve garantire ai propri parrocchiani. Va maneggiata con cautela, ma guai a disarmarne la carne e lo spirito, il prezzo e il valore. Sarebbe la fine dell’inizio (degli ennesimi fioretti), e l’inizio della fine.

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