Più farsa che guerra

Roberto Beccantini15 dicembre 2011

Guerra e farsa, avevo scritto il primo dicembre. Era troppo facile anticipare come – e dove – sarebbe finito lo strombazzatissimo tavolo della pace. Non ditemi che qualcuno di voi c’è cascato. Ricapitolo per sommi capi (anche se non ne vedo, di capi sommi). Andrea Agnelli, presidente della società i cui dipendenti sono stati condannati in primo grado a svariati anni di reclusione per «associazione a delinquere finalizzata alla frode sportiva» contro Massimo Moratti, presidente-padrone della società prescritta sul piano sportivo per illecitoarticolosei, il massimo, e gratificata di uno scudetto non già da una sentenza ma dal parere di tre saggi, ignari, all’epoca, di certe telefonate. Poi, in ordine sparso, una scorza di Galliani (che si inventò lo spinga spinga prima del bunga bunga), un goccio di Della Valle (noi, così casti e così indifesi) e l’aceto (balsamico?) di De Laurentiis, convocato, suppongo, per trasformare cotanto sinedrio in un «Amici miei» da operetta.

Nei Paesi normali, Calciopoli sarebbe stata risolta in maniera normale. E cioé: aspettando i verdetti d’appello e promuovendo una indagine seria per fare luce sulla scomparsa di determitate bobine, nell’estate del 2006. Inoltre, dopo un simile fiasco, in un Paese normale i Petrucci e gli Abete avrebbero tolto il disturbo. Di solito, persino dal più rozzo dei confronti esce lo straccetto di un ciclostilato allusivo e lassativo. Stavolta, zero. In attesa che il Tar si pronunci sui 444 milioni della guerra Juve-Figc, il presidente del Coni non ha avuto la forza di ricordare ad Agnelli quanti siano gli scudetti, mentre il suo pupillo non ha avuto il coraggio di decidere sul tavolino interista.

Questi siamo. Gianni Petrucci, il competente del giorno dopo. Giancarlo Abete, l’incompetente del giorno prima. Per concepire sul serio un calcio nuovo, urge la pillola del giorno stesso.

Guerra e farsa

Roberto Beccantini1 dicembre 2011

Per dirla con il Fantozzi della Corazzata Potemkin, questo tavolo della pace ha tutta l’aria di essere una «boiata pazzesca». Gianni Petrucci, il padrone di casa, non sa chi invitare anche se finge di saperlo. Il menù prevede un fritto misto di Calciopoli in salsa esotica e ipocrita. Da un lato, il buffet delle associazioni a delinquere finalizzate alla frode sportiva (Antonio Giraudo, Luciano Moggi, cioè la Juventus Football Club); dall’altro, la relazione Palazzi che, senza prescrizione, avrebbe contemplato l’accusa di illecito sportivo per l’Inter di Massimo Moratti e Giacinto Facchetti. In mezzo, i risarcimenti richiesti in sede civile da Andrea Agnelli dopo la sentenza di primo grado di Napoli (Moggi colpevole, Juventus no: un triplo carpiato) e lo scudetto 2006, che Guido Rossi regalò all’Inter e l’incompetenza delle istituzioni federali, piaccia o non piaccia, vada o non vada in prescrizione l’etica, ma forse era l’edera, all’Inter ha lasciato.

Singolare l’ultima uscita di Moratti. A chi gli domandava se avesse pensato di rinunciare alla prescrizione, ha spiegato che al quesito aveva già risposto la procura napoletana, con l’assoluta irrilevanza penale delle «nostre telefonate». Proprio per questo, nei panni di Moratti, avrei rinunciato alla prescrizione e accettato il processo (sportivo): per rispetto di Giacinto e dell’Inter tutta. Cosa avrei mai dovuto temere da banali colloqui o ingenui pissi-pissi? Appunto. A meno che proprio banali o ingenui non fossero.

Quattordici dicembre: il sommergibilista Petrucci a capotavola, poi PilatoAbete e CainoAgnelli, monsignor Moratti, Cappuccetto Della Valle, Galliani senza preservativo (Meani). Sempre che, in extremis, qualcuno non oscarwildeggi: desolato non poter onorare vostro invito per impegno preso successivamente. E prenoti un ristorante più serio.

Petrucci, tavoli e tavolini

Roberto Beccantini17 novembre 2011

Così, a naso, «doping legale» mi sembra un ossimoro e per istinto, dall’epoca della bicamerale dalemiana, diffido dei tavoli politici, chiunque sia il padrone di casa. Gianni Petrucci, presidente del Coni dal 29 gennaio 1999, ha scacciato gli avvocati dal tempio. E’ stato duro con mezza serie A, durissimo con l’innominato Andrea Agnelli. Non discuto la responsabilità della Juventus moggiana; se mai, la distanza dal resto d’Italia, dilatata dal verdetto napoletano di primo grado. Non contesto neppure il rischio che i campi di calcio possano diventare aule di tribunale. Denunciarlo è legittimo, come certifica il caso Sion e come ribadisce il bordello del Tar gaucciano, estate 2003.

C’è un però, e riguarda la vexata quaestio dello scudetto a tavolino. Per evitare torme di avvocati all’uscio, urge più «competenza» da parte delle istituzioni. Non è corretto, e Petrucci lo sa, che dalla giustizia sportiva al presidente Abete, dal Consiglio federale al Tnas, l’esposto della Juventus sia stato scartato per «incompetenza». Nel rispetto di tutte le opinioni, il cittadino di un Paese normale ha diritto a una scelta netta: sì o no. A non fornirla, è lo sport per primo a perdere credito. Il cerino acceso da Agnelli andava spento con un soffio (ripeto: pro o contro la revoca): passarselo di mano in mano, in attesa che si spegnesse da solo, è stato da codardi. A maggior ragione, se la mossa di «decidere di non decidere» l’hanno suggerita gli avvocati federali, a proposito.

Mi fa piacere che Roberto Mancini abbia inviato un sms di congratulazioni a Petrucci: quando, nel febbraio del 2001, da vice di Eriksson alla Lazio diventò allenatore a Firenze, Coni e Figc furono velocissimi a dirsi «competenti» nello stuprare la regola che vietava il via-vai di tecnici a stagione in corso.

Servono dirigenti con gli attributi, non con gli aggettivi.