Un cerotto

Roberto Beccantini23 ottobre 2013

La nuova Juventus non mi è dispiaciuta. Veniva dal folle quarto d’ora di Firenze, Conte l’aveva rivoltata. Ha tenuto testa al Real anche in dieci. Il Bernabeu non è il Bentegodi: ho trovato corretto il rigore, non altrettanto l’espulsione. Al di là del nauseante svenimento di Cristiano Ronaldo e della chiara occasione da gol (?), Chiellini deve imparare a governare braccia e gomiti. In Italia, si tollera troppo; all’estero, meno.

Non è Ancelotti, il destinatario dei rimpianti. Sono i punti persi a Copenaghen e con il Galatasaray che la Juventus deve rimpiangere, ora che in Champions è scivolata al terzo posto. Bene ha fatto Tevez a non scaricare tutte le colpe sull’arbitro tedesco. Fra Milan, Fiorentina e Real – un Real non proprio con gli occhi di tigre – i campioni hanno beccato otto gol. Ripeto: otto. La differenza l’ha fatto Cristiano Ronaldo, tanto per cambiare. O meglio: gli episodi che sono girati attorno a lui.

La Juventus del 3-5-2 nacque a Napoli, dopo un fiammeggiante 3-3. Chissà cosa nascerà dopo Madrid. Conte parla di 4-3-3, a me è sembrato più un 4-5-1. Ogbonna terzino sinistro e Tevez «ala» sono lussi o sprechi da verificare; con i ritorni di Lichtsteiner e Vucinic cresce il bacino di pesca. Benino Pirlo, generoso Llorente, così così Marchisio, Pogba e Vidal. Voce dal fondo: e Buffon? Senza voto. Al di là dei moduli, per i quali sbaviamo, ho apprezzato l’atteggiamento complessivo. Da squadra non più distratta ma, al massimo, con dei limiti.

Per carità: nulla di straordinario, sul piano estetico. La Juventus segna con regolarità (sei gol nelle ultime tre partite), il problema rimane la fase difensiva, a tre o a quattro che sia. Guai a «eroicizzare» la sconfitta del Bernabeu. La sfida ha però offerto materiale sufficiente per riprendere la marcia. Non in Europa, vista la classifica. In campionato.

Catenaccio, mio catenaccio

Roberto Beccantini23 ottobre 2013

Ogni volta che una squadra italiana ricorre al catenaccio, il fanciullino che è in me si commuove. Torno ai quasi gol di Nicolò Carosio, ai filmati in bianco e nero, alle zuffe tra Sivori e Pachin, quando lo spagnolo gli ringhiò «Te falta una pluma para parecer un indio» e Omar replicò con una craniata. Milan-Barcellona 1-1 mi ha ricordato Milan-Barcellona 2-0 della scorsa stagione. Emozioni rare, titoli zeppi di silicone. Dieci minuti di Kakà sono stati spacciati per un miracolo. Qualcuno ha scoperto che «questo» Milan non è più «quel» Milan, lo squadrone in cui Kakà si prendeva la notte e l’agitava come un mantello.

Dicevo del catenaccio. Cos’altro poteva inventarsi, Allegri? Il Bayern non fa testo. Dal Chelsea di Hiddink al Chelsea di Di Matteo, passando per l’Inter di Mourinho, tutti hanno affrontato il Barça così: aspettandolo sull’uscio di casa per poi pugnalarlo appena entrato. Al Milan è riuscita, soprattutto, la prima fase. I piedi sono quelli, ogni paragone con gli alluci che furono ha poco senso.

Scritto che la fase a gironi non ha il fascino esplosivo dell’eliminazione diretta, e sabato andrà in onda proprio Barcellona-Real, l’orchestra catalana mi ha annoiato. C’è torello e torello: i ricami di San Siro mi sembravano piccoli atti memorizzati e, dunque, dovuti. Non ho colto felicità, nei tocchi di Xavi e Iniesta. E poi: evviva il 4-3-3, a patto che non imprigioni Sanchez a destra e Neymar a sinistra. Capisco che Messi è Messi, e molte strade debbano portare a lui. Ecco: molte, non tutte. Sarà questa la grande sfida di «Tata» Martino al barcellonismo di Guardiola.

Dal Meazza al Bernabeu. Voce del popolo: il Real è più forte, la Juventus più organizzata. In linea di massima, sì. Restano due variabili: 1) il quarto d’ora di Firenze; 2) il cambio di modulo (da 3-5-2 a 4-3-1-2). Al posto di Conte, avrei atteso il Genoa. L’importante è che sia convinto, e non che si sia lasciato convincere.

Non è più lei, non è più lui

Roberto Beccantini20 ottobre 2013

Non è più lei, non è più lui. Il 17 marzo 2012, proprio a Firenze, «nasceva» la Juventus dei due scudetti: 5-0. Il 20 ottobre 2013, sempre a Firenze, mi sa che ci abbia lasciato. Vinceva due a zero e ha titillato a lungo il tre a zero, poi è scomparsa, letteralmente. Quattro gol, con Antonio Conte in panca o in tribuna, non li aveva mai presi. Sul secondo, Gigi Buffon, il «lui» dell’incipit, ha ribadito che gli indizi cominciano a essere troppi, e troppo pesanti.

Senza barriere, la Juventus: come il Franchi. La partita conferma quanto il calcio sia folle, misterioso. Tevez e gli episodi l’avevano portata oltre la propria prudenza. La pancia piena e il Real l’hanno spinta fuori campo. Come quel derby col Toro, da 3-0 a 3-3. Come con la Sampdoria in dieci, il 6 gennaio, da 1-0 a 1-2.

Dimissioni di gruppo. La panchina di Vidal, molto o poco etica, non c’entra un tubo. C’era sola una squadra in campo, prima che uscisse ed entrasse l’altra. Non la batteva dal 1998, la Fiorentina. Montella era senza Gomez, con Rossi subito acciaccato e Ambrosini presto fuori. Joaquin ha portato bollicine, il resto l’hanno fatto l’arroganza degli aguzzini e l’orgoglio delle vittime. La tripletta di Pepito Rossi conferma quanto il rischio dei Della Valle fosse e rimanga giustificato.

Doppietta della Juventus nel giro di tre minuti, poker viola in un quarto d’ora. Credo che l’ingresso di Motta sia stato una atto di sfida di Conte verso il mercato societario.

La Signora ci aveva abituato a distrarsi in avvio, questa volta si è tolta la cintura quando ormai pensava di essere atterrata. Imperdonabile. Più che i cinque punti dalla Roma padrona allarmano le reiterate omissioni. Un anno fa, dopo otto turni, la difesa aveva incassato quattro gol. Sono già dieci. Ci siamo capiti. E Cristiano Ronaldo è lì, dietro l’angolo.