I cristiani e Cristiano

Roberto Beccantini5 novembre 2013

Più di così. Questa è la Juventus, una squadra. E questo il Real, Cristiano Ronaldo più una squadra. Il calcio rimane un paradosso: con tre giocatori palesemente fuori ruolo – Asamoah terzino, Tevez esterno sinistro e Marchisio «ala» destra, alla Florenzi – la Juventus di Conte si è aggiudicata ai punti il primo tempo, salvo poi penare nel secondo. E comunque, tra i migliori in campo, dopo Cristiano Ronaldo, vincitore di tappa per distacco, c’è Iker Casillas, non Buffon (e non certo per colpa del portierone juventino).

Paradossi, già. E questo? Proprio nella sera in cui scivola all’ultimo posto del girone, la Juventus incerotta la qualificazione. Se batte in casa il Copenaghen e il Galatasaray non vince a Madrid, contro il Real al quale manca un punto, andrà a giocarsela a Istanbul con due risultati a disposizione.

La partita è stata un’ordalia croccante. La Juventus ha fatto la partita che doveva fare, compresi gli errori (cruciale, quello di Caceres in disimpegno), il Real ha dimostrato anche coro, non solo tenori, e una fase difensiva non all’altezza: immagino i moccoli di Ancelotti. Poi, è chiaro, a Cristiano Ronaldo e Gareth Bale basta poco, ad altri serve di più. E’ la legge del talento.

Ha seguito il richiamo della foresta, la Juventus, parcheggiando il Napoli lontano dalla notte. E’ il primo pareggio nelle coppe, tra bianchi e bianconeri. Il Real ha mollato negli ultimi dieci minuti: e i rivali, sazi, ne hanno venerato il torello.

Il 4-3-3, vero o falso, costituisce una variante al piano regolatore di Conte. Tra andata e ritorno ha retto, anche se la fase a gironi non è tritolo. Pensate: la Juventus non ne ha ancora vinta una, eppure è sempre lì, più viva che morta.

Su tutti, Pogba e Vidal. Al posto di Conte, avrei anticipato i cambi e sfruttato anche il terzo. Dimenticavo: che arbitro, Webb.

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Uno contro tutti

Roberto Beccantini3 novembre 2013

Dalla pancia dello stadio olimpico di Torino è emersa una partita che mi ha riportato ai tempi in cui, all’oratorio, il più dribblomane di noi aspiranti Sivori sfidava tutti gli altri, a cominciare dal proprietario del pallone. Spesso, vinceva proprio lui. Nel calcio moderno vincono, di solito, gli altri. Non sempre, però, Non questa volta, almeno. E allora: Toro uno Roma uno. Prima non vittoria, dopo dieci consecutive, della capolista.

Il dribblomane a me caro è Alessio «Winston» Cerci, 26 anni e finte ondeggianti come i suoi riccioli. In passato, lo avremmo definito un’ala; oggi, è un esterno (per il 4-4-2) o una punta larga (per il 4-3-3). Mi piace il suo coraggio, quella spavalderia di vivere il calcio fuori dagli schemi. Per un tempo, la partita è stata: Cerci contro la Roma. Non poteva che essere in vantaggio la Roma. E difatti lo era. Poi, alla ripresa, qualcuno gli ha dato una mano e proprio Cerci ha pareggiato il gol di Strootman, una via di mezzo tra Emerson e Neeskens.

Mi sono entusiasmato a seguirne i sentieri. Tirava da tutte le parti, Cerci, scartava chiunque gli capitasse a tiro. Sembrava la prolunga, misteriosa e suggestiva, di Gigi Meroni. La fabbrica di Rudi Garcia, già scossa da uno smash di Meggiorini (che parata, De Sanctis!), ha riaperto al volo per gli straordinari, ma non le è bastato. Un calo di tensione, in assenza di Totti e Gervinho. Nulla di drammatico: ci mancherebbe. Il calendario le strizza l’occhio: domenica, Roma-Sassuolo e «spareggio» Juventus-Napoli.

Cerci è uscito nel finale: mai così stremato, mai così applaudito. Il segno distintivo resta il dribbling, i cui influssi diabolici sono invisi a quei curati del pressing alto e del regista basso che raccomandano tonnellate di Pater, Ave e zona. Ci sono società che inseguono uomini di fascia, Alessio è molto ala e poco terzino, ma un pensierino glielo avrei dedicato.

La giocata, non il gioco

Roberto Beccantini2 novembre 2013

Il Parma è l’unica squadra che, con Biabiany, ha segnato alla Roma. La Juventus di Conte, inoltre, al Tardini non aveva mai vinto: 0-0, 1-1. In questi casi, per giustificare il fumo del sabato ci si aggrappa all’arrosto del martedì: avevano la testa al Real. Conte ha privilegiato il populismo dei bar sport alla ragion di campionato, l’unica strada percorribile. Chi scrive, avrebbe schierato la formazione tipo. Capisco la storia, i denari della Champions, ma i record di Garcia impongono scalette dolorose.

E’ andata di lusso, al Mourinho del Salento. Ha risolto una chicca balistica di Quagliarella, smorzata dalla traversa sull’alluce di Pogba. Erano appena usciti Giovinco e Tevez, erano appena entrati Llorente e Quagliarella: non rammento cambi più azzeccati.

Classica tonnara da zero a zero. Fino al gol, due occasioni del Parma (Gobbi, Amauri) contro una (Tevez). Primo tempo, una boiata pazzesca; secondo, piccoli segni di vita. Vero, è la terza partita consecutiva che la Juventus non prende gol, ma per non prenderne non potrà sempre impedire agli avversari di tirare, o tirare male. I pugni di Buffon agli sgoccioli dell’ordalia, sul più innocente dei campanili di Cassano, mi hanno fatto sobbalzare.

Non c’è più il miglior Marchisio e, gol a parte, non c’è ancora il miglior Pogba. Un disastro, Padoin. Eccellente, viceversa, la copertura di Barzagli. Senza Pirlo, le geometrie latitano: per l’eredità, dal momento che dubito si possa arrivare a Verratti, consiglio Cigarini, classe 1986.

Il Parma è un intrico di reticolati. Donadoni ha avuto tutto da tutti, tranne che da Cassano, in versione «soldatino» (proprio lui). Un anno fa, all’undicesima giornata, la Juventus perdeva in casa con l’Inter. Oggi ha 28 punti, gli stessi. Martedì il Real, domenica il Napoli. Basta, però, con la roulette degli episodi.