L’Avvocato

Roberto Beccantini24 gennaio 2013

Dieci anni senza Giovanni Agnelli. E, il prossimo 24 luglio, novant’anni di Agnelli & Juventus (salvo spiccioli attorno alla seconda guerra mondiale). Non saprei quale ricorrenza sia più significativa. La prima celebra il simbolo; la seconda sancisce un rapporto unico al mondo.

L’Avvocato era curioso, tifoso, poco politico. Recitava un ruolo facile, per «grazie» ricevuto, ma lo recitava con stile (e stiletto). Aveva carisma: la qual cosa non significa aver sempre ragione; significa, se mai, aver sempre il rispetto degli altri. Gianni era la regina Elisabetta; Umberto, la Thatcher. Anche per questo è stato più amato, più coccolato del fratello. Aveva il dono, raro, dell’ironia. In cambio di una battuta, gli si perdonava molto; in cambio di un’intervista, tutto. Non gli piaceva perdere ma sapeva perdere. Nei botta-e-risposta era uno sprinter, non un maratoneta come Silvio Berlusconi, che trasforma la domanda in un viaggio.

I suoi amori sono stati Omar Sivori, reclutato da Umberto, e Michel Platini, suggerito a Giampiero Boniperti. Se il papà Edoardo portò la Juventus oltre le polisportive artiginali del primo Novecento, il figlio scolpì la supremazia della società, fino a trasformarla nella bilancia del calcio italiano.

Il potere della Fiat, degli Agnelli, della Juventus serviva per giustificare tutto: ferite e alibi. L’onda migratoria degli anni Sessanta, con la meridionalizzazione della rosa, da Petruzzu Anastasi a Franco Causio, fissò un momento storico. Più sudisti in campo, più sudisti (felici) in fabbrica: si scriveva così, allora.

Dentro una favola che, a sua volta, stava dentro una famiglia battuta dalle tragedie, l’Avvocato ha vissuto la Juventus come una passione e non come un mestiere. Ha lasciato un segno e un sogno che, come ha scritto Giampiero Mughini, continua.

Il paradosso

Roberto Beccantini19 gennaio 2013

Sarà anche «lezioso», Paul Pogba, e qualche volta lo è, ma a 19 anni – con l’aria che «tira» – incarna un progetto di fuoriclasse. Lo so, scopro l’America. Qualità esplosive, come hanno documentato i due gol (soprattutto il primo: un missile) e quello che realizzò al Napoli. Con il Bologna aveva segnato di testa. C’è chi lo paragona a Vieira e chi a Rijkaard. Contro l’Udinese, ha giocato nella posizione di Pirlo. Alla sua maniera: tocchi felpati e bombe da tre (basket docet). Un’arma in più.

Non era una partita facile; è diventa, viceversa, facilissima. Guidolin celebrava le 500 panchine in serie A, l’Udinese veniva da una sconfitta in tredici gare. Le mancavano Brkic e Benatia. Di Natale è entrato nella ripresa. Come non detto: un po’ di bollicine fino allo 0-2, l’Udinese, e poi una resa tipo Lazio all’Olimpico. La capolista era senza Asamoah, Chiellini, Marchisio e Pirlo. Reduce da due rimonte, e da un punto in due partite, tutti noi l’aspettavamo al varco. Le secondo linee, questa volta, hanno retto: da Caceres a Giaccherini. Ho rivisto una gamba abbastanza sciolta: le «dimissioni» rassegnate contro la Sampdoria sembrerebbero rientrate.

Il paradosso coinvolge gli attaccanti, non l’attacco. Che è il più prolifico del campionato (45 gol). Giovinco è stato sostituito per disperazione; e Vucinic, per disperazione, tenuto. Il montenegrino e Matri hanno poi arrotondato il risultato. Cavani, capocannoniere assoluto, ne ha firmati 16. I migliori bomber della Juventus sono Giovinco e Quagliarella, con 6. Il centrocampo continua a fornire un rapporto mostruoso. Vincere uno scudetto con l’attaccante più prolifico così lontano dal podio (Ibrahimovic 28 gol, Matri 10), è stata un’impresa; figuriamoci due di fila (se).

Rimangono misteriose, almeno per me, le ragioni che hanno spinto sir Alex Ferguson a mollare un giovanotto di talento come Pogba.

Il caso Armstrong

Roberto Beccantini16 gennaio 2013

Un lettore mi sollecita un commento sul caso Armstrong. L’uomo che vinse il cancro e un «cancro» è diventato: per il ciclismo, per lo sport. Non sono un tuttologo. Non sono un moralista, o almeno spero. Mi chiedo, piuttosto, se certe cose avvengono perché si fustiga troppo o perché si fustiga troppo poco. Qualcuno mi sa rispondere?

I sette Tour strappati, letteralmente, cancellano ogni confine. Siamo al di là di tutti e di tutto. I silenzi, i depistaggi, le bugie, le indagini, la confessione fanno tanto «Delitto e castigo»: dentro di noi si agita sempre un lembo di Raskolnikov. La domanda resta immutata, nei secoli: perché? Tiro a indovinare: perché, forse, Lance si sentiva in credito con la vita e con la società (io so cosa significa lottare con un tumore, voi no; dunque, ho più diritti di voi). Perché, simbolo condiviso e riverito, era a conoscenza delle regole del branco, e delle sostanze che giravano e rendevano forti anche i meno forti di lui. Per cupidigia, per ingordigia, per leggerezza. Per complicità assortite, in alto e in basso, perché gli sport – quelli poveri ed eroici, soprattutto – hanno bisogno di principi azzurri e di favole da raccontare, con cui reggere la concorrenza, catturare spazio, sedurre sponsor, rastrellare denaro (anche per nobili fini).

Ci siamo cascati quasi tutti. Cosa avremmo pouto fare di più, e di meglio, noi giornalisti? Avremo avuto le nostre colpe, ma i controlli non spettavano a noi: se mai, il controllo. E come ammonisce il professor Alessandro Donati, il doping corre più veloce dell’anti-doping. Quello che mi stupisce, da non addetto al ciclismo, è la «realtà» di Armstrong: possibile che fosse così sicuro di restare coperto, impunito e invincibile? Siamo di fronte a un doping sistematico, di squadra, di cupola, non a casi sporardici; a un decennio, mica a un banale momento di debolezza (sic). Spero solo che si sia pentito.