Caso Napoli, nessuno è prefetto

Roberto Beccantini7 novembre 2011

Che Paese, ragazzi. A Genova, dopo i sei morti, la classe politica è sotto accusa per carenza di prevenzione. A Napoli, dopo la morte di Napoli-Juventus, la classe politica è sotto accusa per eccesso di prevenzione. Non credo che il prefetto Andrea De Martino sia un mascalzone – al massimo, un fifone – e allora accetto la sua scelta. All’estero, soprattutto in Inghilterra, più di una partita è stata ritardata o rinviata perché, attorno allo stadio «agibile», la neve o la pioggia avevano sabotato strade, ponti, cavalcavia, rendendo pericoloso il flusso dei tifosi. Ricapitolando: per una volta che, in Italia, la sicurezza dello spettatore «fisico», da stadio, viene preferita agli agi dello spettatore «virtuale», da salotto (quorum ego), non sarà certo il sottoscritto a gridare al complotto, all’inghippo, a un san Gennaro fazioso oltre ogni ragionevole ampolla. L’italiano, del resto, è campione del mondo nelle analisi post-ventive e ultimo, staccato, nelle diagnosi pre-ventive. Detto che il rinvio ha favorito più il Napoli che la Juve, le polemiche legate alla data del recupero appartengono agli istinti tribali del nostro mondo, istinti, che, al varo del calendario, Aurelio De Laurentiis sintetizzò con il suo memorabile «siete tutti delle m.».

Il lato buffo della vicenda è la delusione del presidente della Lega calcio, Maurizio Beretta, avvisato «solo» per telefono. Beretta è un presidente dimissionario in quota Unicredit (Roma): dimissionario anche dalle dimissioni che ha rassegnato e, dunque, sempre lì. Gli ricordo sommessamente che, nel gennaio 2010, non si disse «deluso» dall’invasione di Adriano Galliani, amministratore delegato del Milan, che aggiustò il calendario aziendale per alleggerire l’approccio al derby. De Martino, cause di forza maggiore. Galliani, forze di causa maggiore. E Galliani non era nemmeno prefetto.

Del Piero, dov’è la notizia?

Roberto Beccantini19 ottobre 2011

Chiedo scusa, ma non ho capito: dov’è la notizia? Si sapeva che Alessandro Del Piero avrebbo lasciato la Juventus al termine dell’attuale stagione; Andrea Agnelli non ha fatto altro che ribadirlo – con applauso, davanti a Giampiero Boniperti – nel corso dell’assemblea degli azionisti. Lo aveva dichiarato, e scritto, lo stesso capitano. Per carità: Andrea avrebbe potuto scegliere un altro momento, ma è fatto così: gli piace «giraudeggiare», adora«marchionneggiare». Personalmente, trovo che il trattamento riservato ad Amauri (fuori rosa e fuori da tutto per aver osato esercitare un elementare diritto: rifiutare il Marsiglia, forte del contratto che lo lega ancora alla Juventus) sia stato molto più censurabile di questa uscita «delpieresca».

Alessandro sarà sempre della Juventus, e la Juventus sarà sempre, al di là dell’epilogo del rapporto, «anche» di Alessandro, come lo è stata di Omar Sivori, Giampiero Boniperti, Michel Platini, ritiratosi sul filo dei 32 anni, Gaetano Scirea, Beppe Furino. Il 9 novembre Del Piero compie 37 anni. Se il cuore reclama la sua razione di emozioni e sentimenti, bisogna stare attenti a non cadere nel buonismo sdolcinato delle bandiere vilipese e calpestate. Calma. Raul e il Real si sono separati in attesa di riprendere un percorso comune. Per entrare nella storia, bisogna uscire dalla cronaca: Del Piero, che nella storia – della Juventus e del calcio – ha prenotato un posto da tempo – lo sa.

All’italiano piace guardare il dito, non la luna. Il dito è la non notizia di Andrea. La luna è molto più complessa: nell’estate del 1995, quando venne comunicato, non già all’assemblea degli azionisti, ma a un’assemblea di tifosi, che Roberto Baggio sarebbe stato piazzato al Milan, la Triade aveva pronto Del Piero. Nell’autunno del 2011, dopo la conferma che Del Piero chiuderà nel giugno 2012, la Biade (Agnelli & Marotta) chi ha pronto?

Juve, magari fossero tutti Milan

Roberto Beccantini4 ottobre 2011

Impossibile non celebrare la Juventus che ha sconfitto il Milan; e anche il suo fioretto, non la solita, giurassica, clava. Attenzione, però. Non sono i campioni di turno a fornire il peso netto della squadra bianconera. Sono i Chievo e i Catania, i Palermo e i Napoli. In sintesi, il ceto medio-alto. Non l’aristocrazia. Basta sfogliare i campionati post Calciopoli.

Da Claudio Ranieri ad Antonio Conte, il bilancio con le tre Grandi resta attivo: 3 vittorie, 3 pareggi, 2 sconfitte con l’Inter; 4 vittorie, 2 pareggi, 3 sconfitte con il Milan; 5 vittorie, 2 pareggi, 1 sconfitta con la Roma.

I problemi sono il Napoli, con il quale la Juve ha sempro perso al San Paolo (4 su 4), e il Palermo, capace di infliggerle tre schiaffoni consecutivi a Torino. I problemi sono (furono) gli sperperi con Cesena, Catania e Chievo (da 2-0 a 2-2). A proposito di Milan: nel girone d’andata dell’ultimo campionato, la Juventus di Del Neri il Milan lo aveva battuto addirittura a San Siro, per 2-1. E non era certo un Diavolo così mansueto.

Se l’espulsione di Vucinic spiega il pareggio casalingo con il Bologna, come giustificare la tremarella di Catania? Con il valore dell’avversario, certo, ma la Juve è la Juve, o almeno così dovrebbe essere. O no? O non ancora? Ecco: incassate le iperboli e disperso l’incenso che sempre accompagnano le cene degli affamati, e Dio sa quanto Andrea Agnelli lo sia, Conte deve togliere l’ultima maschera a questa «Signorina» grande con le grandi e piccola con le piccole. Nella serie A a venti squadre, i confronti diretti non incidono come una volta. Decidono, sempre più, le sfide indirette. Non basta sprigionare l’orgoglio represso. Urge una personalità che sappia accendere il gioco. Con gli attributi, servono gli argomenti. La Juve che fa la provinciale contro i padroni, deve tornare padrona contro le provinciali.

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