Riflessioni su M e M

Roberto Beccantini11 gennaio 2012

Maradona e Pelè sono stati il massimo. Di Stefano è stato tutto. Poi, sparpagliati, gli altri: con Cruyff, Schiaffino e Garrincha in testa al gruppo. Sono valutazioni personali, e come tali prendetele. Il terzo pallone d’oro di Leo Messi ha riproposto l’eterna domanda: meglio chi? E’ difficile paragonare artisti di epoche diverse, a maggior ragione se lo sfidante, chiamiamolo così, è nel fiore della carriera e, per questo, ruba l’occhio. Mi tengo ancora Diego, meno goleador ma più leader. Maradona era uomo «di sinistro»; Messi, che compirà 25 anni il 24 giugno, usa anche il destro. Non v’è dubbio che il Barcellona di Leo sia decisamente più forte di tutte le squadre in cui ha militato Diego, Nazionale inclusa. Ecco, la Nazionale: qui la pulce deve inseguire.

Per liberare il genio di Messi, Guardiola ha dovuto spostare Eto’o all’ala e svendere Ibrahimovic. Il pibe, in compenso, sapeva esprimersi in qualsiasi contesto, e con qualsiasi partner, a cominciare da centravanti di ruolo come Careca. Obiezione: a differenza di Messi, Maradona non era una punta-punta, arrivava da lontano, o da più lontano. Vero, ma la classe assoluta non sottrae, somma; non si elide, si adegua.

Per concludere, una riflessione su quanto siano trascurati i cambi di regolamento nel giudicare campioni cronologicamente trasversali. Quando Diego filava, al potere c’erano i difensori. Oggi che Leo spopola, al potere ci sono gli attaccanti. La cesura del Mondiale ’90 ha ribaltato i rappori di forza da porta a porta. Diego finì poco dopo, Leo ha cominciato molto dopo. Limite del retropassaggio al portiere, rosso diretto per i falciatori di chiare occasioni da gol, eccetera: con tutto questo bendidio anche Diego, probabilmente, avrebbe segnato di più. Può darsi che abbia scritto una sciocchezza. Un fatto è sicuro: la caccia a Maradona ha aiutato la caccia di Messi.

L’unico “rigore” che piace al Berlusca

Roberto Beccantini8 gennaio 2012

Appunti d’inzio anno.

1) Il golletto di Matri ha nascosto una Juventus lontanissima dalla amazzone che avevamo lasciato sotto l’albero: brutta, lenta, avara. Scritto che il Lecce di Cosmi non avrebbe demeritato il pareggio, è sperabile che a frenare la squadra di Conte siano state le zavorre psicologiche del passato e le ruggini di Dubai.

2) L’eclissi di Pirlo era nell’ordine della cose. Al netto degli alti e bassi del gruppo, la classifica rimane «incredibile».

3) Il Milan di Ibrahimovic viaggia al ritmo di un penalty ogni tre partite (già sei su diciassette). In assenza di intercettazioni, mi limito a prenderne atto: è l’unico rigore che piace a Berlusconi. La Juve è ferma a uno che, fra parentesi, non c’era: c’era, in compenso, quello su Vucinic, a Lecce. Fallo di Oddo: toh, un ex milanista. Satira politica.

4) I tifosi veri sanno essere superiori alle tentazioni dietrologiche. Fornirebbero fior di alibi ai propri cocchi. E gli alibi, si sa, sono la tomba delle ambizioni.

5) Lo striscione contro Borriello, esposto a Lecce, non mi è piaciuto. La scorsa stagione, aveva rifiutato la Juve: e allora? Lo si valuti per quello che farà, non per quello che ha detto.

6) Il derby di San Siro nasce bello croccante. Il Milan viene da dieci vittorie in dodici partite, l’Inter da sette su otto. Il braccio di ferro per Tevez rende ancora più saporito l’indotto. Il Milan ha perso a Napoli e con la Juve, pareggiato con Lazio e Udinese. Soffre le grandi o sedicenti tali. Lo stesso dicasi dell’Inter: k.o. con Napoli, Juventus e Udinese, pari con la Roma. Molto dipenderà da Ibra e da Maicon (recupera, non recupera?).

7) Non scopro niente, lo so, ma lo ripeto comunque: Stevan Jovetic, classe 1989, ecco un talento che i maghi del mercato, ammesso che esistano o siano esistiti, non avrebbero dovuto lasciarsi scappare.

Tra coro e tenori

Roberto Beccantini5 gennaio 2012

In qualità di presidente della società per (ex) azioni «Giùlemanidamauri» (fallita) e della fondazione «Giùlemaninedagiovinco» (esiliata), lasciatemi riprovarci con Yaya Touré. Ha 28 anni, è ivoriano e gioca, con il fratello Kolo Touré, nel Manchester City di Roberto Mancini. Quando la Juventus stava tornando in serie A, e Didier Deschamps non aveva ancora dato le dimissioni, Yaya era in cima alla lista, o molto vicino. Poi Didier saltò, il mercato diventò di quantità e la pioggia di parametri zero fece strage dei pochi ombrelli aperti.

Più che un centrocampista, Touré è un tuttocampista. Gran fisico, buona tecnica. Gli itinerari e l’eclettismo ricordano la versatilità tattica di Dino Baggio, un altro che occupava il territorio con piglio carnale e piedi sensibili. Pep Guardiola, che ebbe Yaya nel Barcellona, lo impiegò come centrale di difesa nella finale romana di Champions League contro il Manchester United.

Dici Manchester City e pensi al Kun Aguero, alle balotellate, al bivio Tevez, ai milioni di euro che lo sceicco Mansour ha investito e investirà. Chi scrive, viceversa, pensa a Yaya Touré: ai suoi gol quasi mai banali – su tutti, quello che decise l’ultima finale di Coppa d’Inghilterra – alle sue progressioni da mezzofondista, metà Rambo e metà Fregoli. Se i soldi stanno in Asia, l’Africa continua a essere uno smisurato giacimento di talenti grezzi. Yaya non appartiene alla stirpe dei fuoriclasse, ma alla tribù dei guerrieri che hanno scoperto e allevato la disciplina senza smettere di coltivare la tecnica e l’istinto.

I confini di Touré sono le due aree. L’anarchia, ammesso che talvolta ne spaventi i radar, non deborda mai da un tran-tran generoso e, spesso, letale: aggettivi che, di solito, fanno a botte. Non nel suo caso.