Tiri Mancini in attesa del «parto»

Roberto Beccantini8 giugno 2019

In attesa di questo benedetto «parto», le Nazionali con filtro aiutano a riempire i passi nervosi dei tanti papà che girano per la Clinica. Aspettando Godot. La Under 20 di Nicolato ha battuto il Mali per 4-2 ed è in semifinale al Mondiale polacco. L’ha domato un po’ troppo all’italiana, visti gli omaggi dei rivali, ma a Pinamonti donato mica si guarda in bocca, suvvia.

Per tacere del 3-0 di Atene, risultato che gonfia spirito e classifica. Verso gli Europei itineranti del 2020 siamo primi e imbattuti, e ci mancherebbe pure che non lo fossimo, ma è la mano di Mancini che continua a emergere, tutta pressing e tiki taka. E occhio a banalizzarne i risultati: la Bosnia ne ha presi due in Finlandia e la Francia campione del Mondo altrettanti in Turchia.

Si è giocato in uno stadio tiepido, e contro una Grecia sgangherata. Ho molto apprezzato l’approccio, subito piede sull’acceleratore e dirimpettai alle corde. Tre reti in poco più di mezz’ora, tre marcatori, ogni reparto coinvolto: il centrocampo (Barella, il primo), l’attacco (Insigne a giro, splendido, il secondo), la difesa (Bonucci di testa, il terzo). Barella è una mezzala che si butta e detta il lancio, un piccolo Nainggolan: mi piace per questo.

Il ct ha azzeccato le scelte, da Insigne a Belotti (prezioso, come sempre). Da sei partite non si becca gol, ecco un altro dettaglio che aiuta. Il reparto più fragile, alludo al centrocampo, sta diventando il settore più fertile. Verratti ha cambiato marcia, e l’ha fatta cambiare persino a Jorginho.

Gli azzurri hanno imperversato sulla sinistra (Emerson-Insigne), e a essere pignoli, ma sì, l’unico un po’ in ombra è stato Chiesa, anche perché – forse – al centro di «troppo» mercato; e, nella ripresa, un paio di occasioni le abbiamo concesse. Come finisce «A qualcuno piace caldo»? Nessuno è perfetto. Appunto.

Rosso di sera

Roberto Beccantini1 giugno 2019

E’ stata una finale come tante vinta da una squadra con una storia come poche: il Liverpool Football Club. Di solito, i gol-lampo le sbloccano. Il rigore di Salah l’ha invece imbottigliata. Troppo largo, il braccio di Sissoko, per invocare la clemenza del tocco sul petto. E così, dopo Sarri, anche Klopp si toglie l’etichetta di «divertente di insuccesso»: fra i rari galantuomini in circolazione, ci è rimasto il tempo.

Il Tottenham è cronaca, il Liverpool tradizione. La sentenza – obesa solo nello scarto – altro non ha fatto che ribadire il concetto: nove finali e sei Coppe dei Campioni-Champions League, i Reds; una finale, gli Spurs. Al Wanda c’erano pochi inglesi, in campo, ma molto all’inglese, paradossalmete, si è giocato. Lanci lunghi di qua, lanci lunghi di là. Immagino il caldo, le tre settimane di vuoto, la tensione: ho quasi rimpianto il secondo tempo di Chelsea-Arsenal.

Sono venuti a mancare i tenori: Firmino (sostituito poi da Origi, autore del 2-0: quando si dice il c…alcolo), Salah, Alli, Kane, Son, lo stesso Eriksen. Non Mané, però, il più vivo. Mi sono piaciuti, in compenso, i terzini: Alexander-Arnold e Robertson, Trippier e Rose. Non ha pagato, nelle scelte di Pochettino, il recupero di Kane: non solo perché Matip e Van Dijk se lo sono messi in tasca, ma soprattutto perché è costato l’esclusione di Lucas Moura, l’eroe di Amsterdam. Troppo tardi, Llorente.

Le «belle» sono spesso brutte, ed è il gioco, non un semplice gioco di parole. Come, pure in assenza di miracoli, si è colta con mano la differenza tra il Karius di Kiev e l’Alisson di Madrid. Da Sarri a Klopp è stata la stagione delle tute, non solo delle rimonte.

E adesso, scusatemi. You’ll never walk alone neppure voi, cari pazienti, così posso andare.

Il colore del gatto

Roberto Beccantini31 maggio 2019

Dopo Beppe Marotta, ecco Antonio Conte. La juventinizzazione dell’Jnter procede. Così come, all’alba dei Settanta, fu tentata l’internazionalizzazione della Iuventus (Italo Allodi, Armando Picchi). Sarà un caso, ma Steven Zhang, colui che ha dato un calcio alle convenzioni (di Ginevra e non), è cinese non meno e non più di Deng Xiaoping, il gerarca al quale si deve il celeberrimo motto: «Non importa il colore del gatto, purché acchiappi i topi».

Dicono che fino all’ultimo Conte abbia atteso un cenno da Andrea, sdegnato e sdegnoso. Ne dicono tante. I tifosi, loro, l’hanno presa da tifosi. Il protocollo dei Bar sport è immutabile: a un ex interista che approda dai «ladri» si chiede quanti scudetti ha vinto la Juventus. A un ex juventino che si accasa presso le «suorine sempre in chiesa ma spesso incinte» si impone l’orgoglio del mai in B. Per tacere dei descamisados che vorrebbero oscurare la stella di Antonio allo Stadium. Che palle.

Al martello di Conte la Juventus deve il rinascimento post Calciopoli. Il brusco divorzio lasciò vedove inconsolabili e altre consolabilissime. Il passamontagna del web aiuta a esacerbare gli aggettivi (da non confondere con gli «attributi»), il tono, la rabbia. Si rovista nel bidone del cuore a caccia di precedenti: ecco Giovanni Trapattoni, un trionfo di trapianto; ecco Marcello Lippi, non proprio.

In attesa che la Juventus sveli il nuovo allenatore, la doppietta Marotta-Conte incarna l’ennesimo segno dei tempi. Ai livelli più alti – e più lontani dalle pance delle curve, dei social – vige la legge del «professionismo», in nome e per conto del quale si giustificano persino i passaggi più «hard».

Dai ristoranti da dieci euro al carro attrezzi della ditta Allegri (Massimiliano) all’Inter di Conte. Nel segno di Henrik Johan Ibsen. «Il primo dovere di un uomo è essere se stesso».