E il centravanti?

Roberto Beccantini21 settembre 2019

Quando torni dal bicchiere mezzo pieno del Wanda e devi scolarti un Verona, partite così sono all’ordine del giorno. Il pressing di Juric ha costretto la Juventus a giocare in contropiede. Un pressing di gruppo e di speroni, a rischio giallo, ma capace di mordere, di confondere. Ne aveva cambiati cinque, Sarri, e immagino quanto gli sia costato: lui che per i colpi di stato ne invocava appena diciotto.

Verre e Amrabat davano i tempi all’Hellas, nessuno li dava ai campioni. Ramsey, al debutto da titolare, annusava gli schemi, Dybala era Messi a metà campo ma poi? Cristiano pascolava ai margini, idem Cuadrado. L’area sorda e vuota, non c’era centravanti: una pacchia, per Kumbulla e Gunter.

Nulla da dire sul rigore dell’acerbo Demiral, dal quale è nato, comunque, il gol di Veloso (gran sinistro dal limite) dopo il palo di Di Carmine e la traversa di Lazovic. Il pareggio, in compenso, è piovuto da una carambola di Gunter su un tiro del gallese, tiro che, sono sincero, non mi era parso irresistibile. E sempre il povero Gunter, già artefice del penalty di Calhanaglou, ha propiziato quello su Cuadrado, trasformato da Cristiano.

Danilo e Alex Sandro hanno spinto poco, Bentancur aveva le sue cose, meglio, molto meglio Matuidi (fino, almeno, al momento dello sparo). «C’era Guevara» ha invano spinto la squadra a salire, ma non è che i dipendenti gli abbiano dato retta. Higuain ha sostituito Dybala: poca roba, ma quel sangue al naso era da rigore. Juric, la scorsa stagione, fu il primo a bloccare la Juventus. E fra la parata di Buffon su Lazovic e il palo scheggiato da Veloso, migliore in campo per distacco, stava per riuscirci di nuovo.

Rimontata, rimontante: è una Juventus che il massimo l’ha dato finora contro Napoli e Atletico. Non a Parma e Firenze, e meno che mai oggi. Dimenticavo: con Khedira in campo, ancora zero gol al passivo.

Una lezione, in tutti i sensi

Roberto Beccantini18 settembre 2019

Piano piano, la Juventus prova a staccarsi da Allegri per diventare di Sarri. Il 2-2 di Madrid è difficile da digerire per come si era messa (2-0) e, soprattutto, per come si sono presi i gol (testa di Savic, testa di Herrera: aggiunti ai due di Manolas e Di Lorenzo fanno già quattro su palle inattive: troppi). Difficile, ma bello da raccontare, visto il timbro tecnico e fisico dell’ordalia, un primo tempo così così, poi una ripresa da grande squadra, capace di soffrire e di rischiare, ma anche di far soffrire. E con lo slalom di Cristiano, al 94’, di gelare, comunque, quell’inferno chiamato Wanda.

Belle le reti, specialmente la prima: esterno destro bonucciano da urlo, servizio di Higuain, gran numero di Cuadrado, che «C’era» Guevara aveva preferito a Bernardeschi. Cuadrado è il classico scolaro capace di scrivere cuore con la q ma anche di beccare otto in un tema. Dimenticavo: contropiede purissimo. Più cesellato e arioso, il secondo: cross di Alex Sandro, sgrullata di Matuidi (uno dei cocchi di Allegri), in capo a una signora azione.

Simeone e Sarri se le sono date di santa ragione, sul piano tattico e a livello rambico, cercando di ribaltare il fronte della manovra (il Cholo), invitando le catene laterali a salire (il Comandante). In Champions, it’s not over until it’s over.

E’ stato, come Napoli-Liverpool, un romanzo fiammeggiante. Veniva, la Juventus, dalla partitaccia di Firenze. La reazione c’è stata, persino dopo il pareggio, ed è stata sempre da branco con «los huevos», cosa che in casa dell’Atletico non le era mai riuscita: due gare, due sconfitte, zero gol segnati. Sarri deve lavorare molto sui cross, l’area grand hotel non porta lontano. A certi livelli, inoltre, non si possono sbagliare certe scelte: penso a Danilo che ignora il marziano. Su tutti, Bonucci e Matuidi. Per una volta, prendo il bicchiere mezzo pieno.

Dalla propaganda al campo

Roberto Beccantini17 settembre 2019

Champions, finalmente. Il Napoli aveva già regolato il Liverpool la scorsa stagione (sempre nel finale: 1-0, Insigne), ma questa volta ha battuto i campioni d’Europa. Ari-giù il cappello, dunque. Ancelotti se l’è giocata sino al traguardo, con Insigne, Lozano e Mertens all’inizio, poi con i cambi, Llorente su tutti. Ha sofferto, certo, ma la parata di Adrian su Mertens non è stata meno impegnativa e profonda di quella di Meret su Salah. Anzi.

Se si deve parlare di un rigorino molto «ino» e di assist di Van Dijk nell’azione del raddoppio, non si può non plaudire l’atteggiamento di una squadra che ha sempre cercato di restare tale, con coraggio e con coerenza, anche quando i Reds mulinavano come una clava il contropiede di Salah, Mané e Firmino.

Ho rivisto il miglior Koulibaly, ho ritrovato uno dei più preziosi carri attrezzi in circolazione, Llorente (ecco perché terrei Mandzukic: non si sa mai). Senza trascurare l’impatto di Di Lorenzo, dall’Empoli all’Europa. Anche un anno fa il Liverpool partì piano (tre sconfitte in trasferta), salvo spopolare in primavera. Vedremo.

Brutta Inter, viceversa. Alla costante mercé di uno Slavia che l’ha sovrastata in lungo e in largo: nel fraseggio, prima che sul piano fisico. Conte mi ha dato l’impressione di aver studiato poco gli avversari: e comunque, come Ancelotti, ha azzeccato i cambi, da Politano a Barella. La trama mi ha ricordato l’Inter spallettiana contro il Tottenham. Con la differenza che lo Slavia, a differenza degli Spurs, è stato molto più dominante: e se non avesse preteso di entrare in porta con la palla, tipo Barcellona, chissà come sarebbe finita. Pur in una partita così, con Lukaku boa soverchiata, Sensi ha confermato di essere un signor progetto. E non tanto o non solo per la punizione che ha propiziato il pareggio di Barella. Bravo, Marotta.