Napoli, un altro indizio

Roberto Beccantini24 ottobre 2018

I numeri dei singoli contro una squadra. Risultato: 2-2. Ed è il Napoli – due volte raggiunto, la seconda al 93’ – a smoccolare. Aveva giocato meglio, aveva sofferto il giusto e sempre replicato, quando non, addirittura, governato. Privo di Thiago Silva, l’unico lucchetto della difesa, il Paris Saint-Germain sbandava e ripartiva, ripartiva e sbandava come capita alle franchigie imbottite di qualità ma avare di equilibrio, di storia.

Non si batte il Liverpool e non si «rischia» di ripetersi al Parco se dietro non si ha un’idea, un’anima. Insigne come al San Paolo, contro il Liverpool; e poi, dopo la sua uscita e l’autogol di Mario Rui, ecco Mertens (che già aveva colpito una traversa). Ancelotti si è messo in tasca Tuchel. La stessa mossa anti Reds – i tre stopperoni: Maksimovic, Albiol, Koulibaly – e una manovra capace di resistere ai fiammiferi che qui e là Neymar, Mbappé e Di Maria accendevano. Non Cavani, disarmato e sostituito.

Non che il circo parigino abbia prodotto solo noia (bravo Ospina su Mbappé e Neymar), ma c’è voluta una magia di Di Maria per incerottare il risultato. Verratti e Rabiot erano sentinelle fragili: per guadagnare metri il Paris doveva farsi un mazzo così, visti i cingolati di Allan e Hamsik; al Napoli bastava lanciare nello spazio. Peccato per le rifiniture, non sempre baciate.

E’ un pareggio che non attenua i rimorsi per lo zero di Belgrado ma tiene viva la qualificazione. Si potrebbe dire che, in fin dei conti, come Insigne contro Klopp aveva segnato agli sgoccioli, così lo ha fatto Di Maria al Parco. Il Napoli aveva però dominato, il Paris mica tanto.

Al Camp Nou, in compenso, non c’è stata partita. Troppo Barcellona, dovunque e comunque. Anche così, senza Messi (e Nainggolan). L’ennesimo suicidio del Tottenham rende indolore la sconfitta dell’Inter. Quattro su quattro agli ottavi: perché no.

In bellezza

Roberto Beccantini23 ottobre 2018

Era una tappa cruciale, come sempre quando si gioca a Old Trafford, e la Juventus non l’ha superata di forza: l’ha superata in bellezza. Un primo tempo di dominio estetico che avrà mandato in brodo di giuggiole persino Sacchi, poi un quarto d’ora di controllo, un po’ di calo e Barzagli al posto di Cuadrado, quasi a voler saldare due territori, due filosofie.

La squadra di Allegri (e Allegri stesso) avrebbero meritato di più, tutti hanno giocato a un buon livello: da Cristiano, che non ha segnato ma fatto segnare, a Bentancur, crollato alla distanza. Non c’erano i pesi massimi, soprattutto Mandzukic e Khedira, cosa che farà dire a molti: visto? In assenza di controprova, ci sta tutto.

E’ stata una Juventus molto tecnica, ad assetto variabile, come affiora dal gol di Dybala, propiziato da Cristiano ala destra e Cuadrado centravanti. Mourinho, lui, ha lasciato la prima mossa – e molte altre e molto campo – ai rivali. Sabato, a Stamford Bridge, aveva bloccato Sarri ma stasera non aveva riserve, non ha fatto cambi, affidandosi alla lotteria degli episodi, riffa che, con il palo di Pogba, stava per per premiarlo.

Il ritorno di Chiellini ha riportato indietro, alla solita ora, le lancette della difesa. Dominante, la Juventus è stata soprattutto a metà campo, là dove José non se l’è sentita di aggiungere «almeno» la ciccia di Herrera. Ho cercato Pogba, che sempre rimpiango, e devo essere sincero: l’ho visto poco, «legno» a parte, sempre con le vie di passaggio ostruite.

Allegri temeva il rambismo del Manchester, ha reagito con il palleggio, con la velocità dell’azione (occhio, però, alle rifiniture). Tre partite, nove punti: e quattro gol del piccolo Sivori. Siamo ancora nella fase a gironi, ma solo chi è stato a Old Trafford sa cosa significa giocarci e lasciarlo così, tra gli applausi.

Bentornati tra noi

Roberto Beccantini20 ottobre 2018

La Juventus è la più forte, in Italia: è giusto dirglielo ed è giusto che, ogni tanto, se lo dica anche lei. Non però, possibilmente, quando i biglietti, prenotati, non sono stati ancora ritirati. Come con il Genoa. Che, tirando non più di due volte, l’ha costretta al primo stop dopo dieci vittorie.

Era il Genoa che Preziosi aveva sottratto a Ballardini e affidato a Juric. Il risultato farà, della mossa, una svolta. Aveva segnato Cristiano, complice un ingorgo Piatek-Radu, Cristiano che aveva colpito anche un palo. Cristiano, l’unico con licenza di caccia: e questo è un limite, non una forza.

Vero, Mandzukic non era lui (no, no: era proprio lui, dirà il partito degli anti), e la dormita di Bonucci e c. sul gol della ditta Kouamé-Bessa è stata omerica. Non c’era Chiellini e Bonucci, ci sia o non ci sia il capitano, patisce terribilmente gli stacchi altrui, da Stepinski a Babacar. Sarebbe il caso di prenderne nota.

Neppure la panchina (Douglas Costa dopo un mese, Dybala, Bernardeschi) ha fornito la scintilla che, di solito, cambiava il panorama. Allegri non è riuscito a impedire che la squadra si dimettesse: avrebbe potuto forse anticipare qualche staffetta, anche se Douglas Costa, un disastro, era entrato sull’uno a zero.

La testa a Old Trafford, là dove Cancelo dovrà misurarsi verosimilmente con il Martial della doppietta a Sarri, non è un’ attenuante. E nemmeno la sosta. Il Genoa ha avuto il merito di restare comunque in partita, persino nel primo tempo, quando rivali meno vanesi l’avrebbero demolito. E dal momento che il destino era in vena, per il pareggio ha scelto Bessa, un centrocampista, e non Piatek, fin qui sempre a segno.

Si chiamano bagni d’umiltà. A meno che lo United di Mourinho, martedì, non decida o ci costringa a chiamarli in un altro modo.