Dal Clasico a Cambiaso

Roberto Beccantini28 ottobre 2023

Chiedo venia se prima di collegarmi con lo Stadium spendo due righe sul Clasico tra Barcellona e Real. Non uno show da rimbalzare sul divano, ma sempre un’idea. Hanno vinto i blancos in rimonta, 1-2: Gundogan in avvio, poi doppietta di Bellingham, l’inglese di 20 anni che unisce il calcio di ogni tempo e di ogni moda. Futuro, in quanto passato (Di Stefano). E presente infinito.

Ciò scritto, eccoci a Juventus-Verona 1-0. Dal Clasico a una baraonda. Hanno deciso i cambi di Allegri: Milik, che ha preso il palo; Cambiaso, che in mischia ha trovato una cruna in cui infilare il cammello di un risultato legittimo. Era il 96’. La fortuna dell’attimo non deve far dimenticare la iella di altri momenti. I due gol di Kean, per esempio: il primo, molto bello, annullato dal Var per un tacco in fuorigioco; il secondo, di testa, invalidato per una sbracciata, a monte, a Faraoni, che l’arbitro coglieva dopo processione al video; la «parata» dello stesso Faraoni su Chiesa, l’ennesimo panchinaro coinvolto nell’avanti Savoia del testa o croce.

Sul piano del tabellino (primi per una notte, dopo centinaia di giorni), molto. A livello di gioco, le solite cose: venti minuti pimpanti, Madama a cassetta ma dominio al passo, troppo lento. Piano piano, l’Hellas usciva dal guscio, ci provava, si faceva audace. Omerico il duello fra l’invasato Gatti e il polifemico Djuric. E provvidenziali i guanti di Szczesny su Bonazzoli.

Costretta a far gioco, la Vecchia pagava i tradizionali dazi di un possesso sterile e una fantasia piatta. Ripresa da rumble in the jungle. Usciva Kean, e solo il giallo dei nervi poteva giustificare il sacrificio suo e non di Vlahovic, il peggiore. Tiri su tiri, mischie su mischie; e, prima dell’episodio-chiave, un’occasione sprecata da Yildiz, classe 2005, l’ultimo della nidiata. Sempre corto muso, sì, ma diverso.

Il Parco di un principe

Roberto Beccantini25 ottobre 2023

Tamburi di Champions. Il Parco di un principe (Mbappé, ça va sans dire) e di un principino (Zaire-Emery, classe 2006, medianino tutta birra): e così Luis Enrique si annette un povero Diavolo che non segna più e soffre le grandi: 3-0. Monsieur Kylian: cornice per una ventina di minuti e, d’improvviso, quadro. Incrocio dei due Ronaldi, guarda negli occhi Tomori, lo disarma e, di destro, infila in buca d’angolo. Più un palo come mancia. Ah, gli schemi.

Daranno la colpa a Pioli. Adli subito invece di Krunic? Forse. Le cicatrici di Giroud si sentono e Leao sta diventendo una locandina da edicola: svolazza che è una meraviglia, attira i passanti ma gol, zero. Ci ha provato, il Milan: di Donnarumma, però, non ricordo parate fenomenali. Solido Skriniar, leggero Hakimi. Il Paris non è più un album di figurine. Se il raddoppio di Kolo Muani nasce da un pisolo su angolo, il tris del coreano Lee è un gioiello d’azione, con Zaire-Emery ancora protagonista.

Capita, quando Sarri trova un Sarri più bravo. Il 3-1 che il Feyenoord di Slot infligge alla Lazio va oltre il risultato. Per un tempo sembra la sfida tra una Red Bull e un camion. Gli olandesi dominano ovunque e comunque, soprattutto a metà campo, segnano con Gimenez e Zerrouki, isolano Immobile, non mollano una zolla che è una. I cambi danno un po’ di benzina all’Aquila, due in particolare: Guendouzi al posto di un frastornato Rovella (21 anni, nessuno nasce imparato) e Castellanos per Ciro. Qua e là emergono briciole di riscossa, ma proprio briciole, dal momento che l’implacabile Gimenez, Messico e nuvole, timbra il terzo.

L’orgoglio e un rigore-strenna (di Lopez, non dell’arbitro) offrono a Pedro un dischetto di consolazione. Con l’Atletico la Lazio aveva pareggiato in rimonta (Provedel), e sempre in rimonta aveva fulminato il Celtic (Pedro). Troppo passiva, stavolta. Il calcio olandese può vincere o perdere, ma rimane un’idea. Sempre.

Kvara, fuga dalla noia

Roberto Beccantini24 ottobre 2023

Anche in Champions le tappe pianeggianti possono nascondere chiodi. Il 2-1 dell’Inter ne è prova fedele. Per un quarto d’ora, Salisburgo in cattedra, con Sommer attento e, in un caso, cruciale. Poi, al primo affondo, palla di Mkhitaryan, difensori a zonzo, tocco di Sanchez e fuga dalla prigione.

Turnover massiccio di Inzaghino, Frattesi e non Barella (entrerà nella ripresa), fiammate e bivacchi. La cantera degli austriaci ha nutrito, nel tempo, cuccioli del calibro di Mané, Haaland e Szoboszlai. Il palleggio di riferimento è piacevole, e a tratti letale, come affiora dal pareggio, meritato, di Glouck. Lo schiaffo scatena una reazione che culmina nel rigore procurato da Frattesi e trasformato da Calhanoglu, il migliore. Dopodiché, staffette bipartisan a gogò, equilibrio sostanziale e sofferenza, visto lo scarto, sino al termine. Morale: vittoria di routine, 7 punti in cassa e domenica Lukaku. Corsi e ricorsi.

C’era una volta il muro di Berlino. Con questa, nove sconfitte consecutive: povera Union. Basta e avanza il corto muso del Napoli. Basta e avanza perché Kvaratskhelia, in versione «All blacks», si mangia un paio di birilli e manda in «meta» Raspadori. Tutto il resto, noia. Senza Bonucci da una parte, senza Anguissa e Osimhen dall’altra. Un tiro, i tedeschi (parato); uno, i campioni d’Italia (gol): c’est la vie. Sei punti tra Verona e Berlino, gli ottavi in tasca, Garcia respira. In tribuna, il «commissario» De Laurentiis avrà preso nota. Anche dell’ingresso di Elmas, positivo, e della sostituzione del georgiano (con Ostigard): mancava poco, d’accordo, ma quando si toglie l’hombre del partido non sempre il destino gradisce.

Napoli lento. Concretezza, più che bellezza. Non è più una sorpresa: lo rispettano, lo studiano, ne intasano i valichi. Rrahmani e Natan in trincea, due lucchetti; più i momenti di Kvara. Caro dribbling ti scrivo, così mi distraggo un po’.