Todo el mundo es Karim

Roberto Beccantini9 March 2022

Por qué il calcio è unico? Perché sa prendersi in giro e rovesciarti addosso la scienza dell’inscienza. Più pensi di aver capito e più capisci che la notte no, come cantava Arbore. Perché, a volte, perdi anche se hai un marziano, Mbappé, cioè Bolt più Ronaldo (a scelta), che segna all’andata e pure al ritorno. E così, dal doppio 1-0 per il Paris Saint-Qatar la storia precipita e affoga nel gorgo del 3-0 per il Real. E’ la Champions, bellezza.

Ve li do io i piedi invertiti, le marcature preventive, la vita bassa e la vita alta, l’elastico, le lavagne di Coverciano che fanno tanto stele d Rosetta. Todo el mundo es Karim (Benzema), triplete dal 61’ al 78’. Il celeberrimo quarto d’ora di popolarità che Andy Warhol non negava a nessuno. La gaffe di Donnarumma, sul gol del pari, ha rivoltato la trama. Come se, entrati per assistere a un film comico, d’improvviso ci trovassimo in mezzo a un western. Fin lì dominante, la squadra di Pochettino è letteralmente scomparsa. Tutti: zio Leo, il giovane Holden Verratti, l’acrobata Neymar. Tutti, meno uno: Bolt + Ronaldo.

Ancelotti, lui, sembrava schivo e schiavo dell’andazzo. Ha azzeccato i cambi (Rodrygo, Camavinga, Lucas Vazquez), ha avanzato Modric, ha chiesto al Bernabeu un segno del destino, fornitogli dal Gigio nazionale, e da lì non c’è stata più partita. Benzema (34 anni), Vinicius (21) e Modric (36) si sono impossessati dell’ordalia, non solo degli episodi, e agli avversari non hanno concesso che briciole manzoniane: «Stette la spoglia immemore orba di tanto spiro, così percossa, attonita la terra al nunzio sta».

Dicono che per fare una rivolta basti un capo, ma per fare una rivoluzione serva un’idea. Ne prendano atto, a Parigi. Magari il Real crollerà nei quarti, ma intanto ha stappato un magnum di emozioni. E alcune bollicine sono arrivate fin qui, in Clinica.

Etichetta rossa

Roberto Beccantini8 March 2022

Se ti siedi ad Anfield, ordinare è difficile anche quando pensi di averlo fatto (gran gol di Lau-Toro). Dura un attimo, la gloria. Lo scrisse Zoff. L’espulsione di Sanchez, già a rischio rosso su Thiago Alcantara, ha ridato al Liverpool quella serenità che i tre legni (traversa di Matip e palo di Salah sullo 0-0, palo del Faraone sullo 0-1) e le grandi «parate» di Skriniar su Van Dijk e di Vidal su Luis Diaz gli avevano tolto.

Decide, così, il 2-0 di San Siro. I Reds sono più forti, ça va sans dire, ma fra andata e ritorno non è che l’abbiano urlato. Anche per le rotazioni di Klopp. Primo tempo liscio; secondo, gasato. Mancava Barella, squalificato: Vidal (c’era una volta) ha salvato un gol, sì, ma prodotto poco. Partita strana, di Alisson e Handanovic non ricordo clamorose piroette. Inzaghi aveva rinunciato a Dzeko. Artiglieria leggera, con Skriniar a chiudere la porta e Brozovic ad aprire le finestre. Martinez grigio, rete a parte. Sanchez, fin troppo tarantolato. Calhanoglu a tocchi alterni. Perisic più di Dumfries. E, dietro, vi raccomando il duello tra Bastoni e Salah. Vincere ad Anfield, comunque, non è mai banale. Qualcosa lascia sempre: a patto di non scivolare sulle lacrime delle moviole.

Il Liverpool? Già al Meazza, più sornione che padrone: e là una traversa l’aveva colpita Calha. Ad Anfield, stesso atteggiamento. Su tutti, Alexander-Arnold: i secchioni diranno che in difesa, bé, insomma. Al diavolo. Pura polvere da sparo. Poi Van Dijk e Salah. Non Mané, bassa periferia; e nemmeno Diogo Jota (cos’ha Firmino?). Per tacere di Jones. All’Inter è mancato il guizzo sotto porta. Al Liverpool, l’effetto dominio che spesso sprigiona. Il calcio, metà arte e metà riffa, si è inchinato al pronostico. A modo suo, con piccole concessioni agli episodi, ma in termini, come direbbe lo zio Bergomi, «onesti».

Quarti di sofferenza

Roberto Beccantini6 March 2022

Era il 28’, quando ho mollato City e United al loro destino (mai che una volta me lo presentino, ci terrei molto) per dedicarmi a Juventus-Spezia. Troppo alti, i ritmi di Manchester; e troppo raffinate, le trame. Avevo i polpastrelli esausti. Avevo bisogno di una tisana. Intendiamoci: Madama ha l’infermeria zeppa e Firenze nelle gambe. Le idi di marzo, inoltre, avanzano, minacciose. Allegri deve far giocare sempre gli stessi e lo Spezia, occhio, aveva vinto al Maradona e con il Milan a San Siro. Thiago Motta, fra parentesi, aveva allestito una formazione spregiudicata. Fra parentesi.

E allora? Palla ad Arthur e Locatelli, con Cuadrado dirimente e convergente, Vlahovic a caccia di corpi ai quali appendersi, Morata sulla sinistra, come il Marione di una volta. Le cadenze, quelle, erano lesse. Ci sarebbero voluti qualche dribbling, qualche assist (vero), un briciolo di fantasia. La Juventus ci ha provato: due palle-gol (la prima, murata da Nikolaou su Locatelli; la seconda, sventata da Provedel su Arthur, smarcato da Cuadrado). E poi la rete, al 33’. Lancio un po’ così del portiere, da Rugani a Vlahovic, da Locatelli a Morata: et voilà.

I prestazionisti erano in estasi: 62% a 38% di possesso, 5 a 0 i tiri. I risultatisti, non proprio. La storia di questa stagione è una stagione strana, di tonfi e impennate, di ricerca del tempo perduto: e, con il tempo, di un gioco, di un’idea. Lo Spezia, pure esso incerottato, ha cambiato passo nella ripresa. L’ha dominata, letteralmente. Ha costretto Szczesny, su Gyasi e Agudelo, a un paio di parate salvifiche. Vlahovic era perso, Rabiot rischiava di far perdere, De Ligt e c. si rifugiavano sotto la gonna di Cuadrado e Morata. La Bernarda festeggiava il ritorno con un giallo. Alla fine, la strisciolina: 9 vittorie e 5 pari. Quarti di nobiltà ieri, di necessità oggi. Soffrendo, sbuffando.