Giallo, e poi rosso

Roberto Beccantini3 May 2022

Come al semaforo: giallo, e poi rosso. Per un tempo, il Villarreal di Unai Emery ha giocato a ritmi spaziali. Due gol – di Dia subito, di Coquelin agli sgoccioli – un rigore (probabile) di Alisson su Lo Celso non concesso, e un Liverpool così prigioniero, così suonato da ricordarmi l’immenso Beppe Viola (il pugile al suo secondo: come vado? Risposta: se l’ammazzi fai pari).

Ma l’Europa è l’Europa e Klopp è Klopp. Stava facendo, o gli avevano fatto fare (dilemma eterno), la figura del pirla. Tre le mosse che, a mio avviso, hanno portato al ribaltone: 1) il cazziatone del tecnico («fatti non foste a giocar come bruti»); 2) l’ingresso di Luis Diaz (al posto del fumo di Diogo Jota); 3) le fotte di Rulli. Scegliete il vostro podio, io vi ho dato il mio.

Non poteva non pagare, il Sottomarino. Non poteva non svegliarsi, il Liverpool. Raul Albiol e Pau Torres hanno difeso Alamo finché hanno potuto. Per un’ora. La resa era nell’aria, e nell’area. In cinque minuti Fabinho fra le gambe di Rulli e Luis Diaz di testa, su cross di Alexander-Arnold, ancora fra le gambe del portiere: ma da vicino, se non altro. Quindi, in campo aperto e a difesa ancora di più, Mané: portiere scapestrato (e scartato) sulla trequarti e 3-2 a porta vuota. L’espulsione di Capoue anticipava il tributo, strameritato, del popolo ai suoi eroi, vinti ma non vigliacchi.

Può essere che il 2-0 di Anfield avesse imborghesito i guerrieri della Kop. E’ già capitato. Ma fra andata e ritorno i Reds si sono presi tre tempi su quattro. Ciò premesso, i 45’ iniziali del Villarreal rimarranno scolpiti nella mia memoria: per il livello del gioco, per la grandezza dell’avversario. Chapeau.

Decima finale di Champions, terza dal 2018: quattrini ma, a naso, anche idee, il Liverpool. E domani, sotto a chi tocca: al Bernabeu si sfidano Real e Manchester City. Si parte dal 3-4 dell’Etihad. Il guru Pep contro il para-guru Carletto. Dico City.

Chi sembrava l’ultima?

Roberto Beccantini1 May 2022

La colpa è mia che vedo troppo calcio inglese. E così peso tutto, tutti, sulla bilancia della Premier. Non dovrei. Non siamo più così ricchi. E comunque, Juventus-Venezia: una decina di minuti da Manchester City (pressing forsennato, traversa di Pellegrini, gol di Bonucci su punizione di Miretti e sponda di De Ligt), e poi, piano piano, il ritorno alle penniche d’antan. Vero, degli ultimi bisogna sempre diffidare, perché saranno i primi, e ultima la Serenissima era, ma vivaddio, si giocava allo Stadium, c’era popolo, faceva caldo e allora vi chiedo: chi sembrava l’ultima? Deduco che non fosse proprio possibile azzeccare un dribbling (Morata), un passaggio (Bernardeschi), un tiro (Vlahovic).

In questi casi si mette tutto sul conto del mister. Allegri, lui, aveva sganciato Fabio Miretti, 18 anni. Centrocampista di suola educata, si è ritrovato in una tonnara che gli avversari, dal trombone di Ampadu al violino di Aramu, hanno conteso fino a governarla. Di solito, è la squadra che adotta il giovane, non il cucciolo che fa da mamma al branco. Coraggio, Miretti.

Il Venezia aveva cambiato skipper: Soncin al posto dell’ex titolare, Zanetti. Crnigoj e c. praticavano un calcio semplice (uhm), ordinato, e la stazza di Henry seminava brividi nell’orto di Szczesny. La partita rotolava verso un epilogo facile da pronosticare: il pareggio, strameritato, del Venezia. Con un gran sinistro di Aramu. Più complicato immaginare che da un corner, battuto da Miretti, ancora Bonucci, in mischia, avrebbe fatto fesso un portiere già abbastanza pollo. Doppietta per i 35 anni: wow.

Entrato con la gioia con cui si va dal dentista, Dyabala passeggiava. Non solo: la staffetta Vlahovic-Chiellini riassumeva lo spirito dell’allegrismo. Non c’è nulla di scandaloso arrivare, per due volte, quarti. Si potesse solo giocare un po’ meglio. Per carità, solo un pochino.

L’altra faccia del calcio

Roberto Beccantini27 April 2022

Corre, la memoria, alla papera di Giuliano Sarti a Mantova. Trafisse i resti dell’Inter lisbonese e consegnò lo scudetto alla Juventus del «movimiento» heribertiano. La gaffe di Radu a Bologna non è ancora una sentenza, ma lascia al Milan due punti di vantaggio più il confronto diretto (1-1, 2-1). Insomma, è qualcosa che le assomiglia.

Szczesny, Donnarumma, Meret, persino Buffon, Radu, titolare per caso al posto di Handanovic, acciaccato: una volta, per un portiere, i piedi erano necessari, oggi sono obbligatori. Si discute la costruzione dal basso: il sottoscritto, solo chi la considera un dogma. E poi, nel caso specifico, non ricordo emergenze, non rammento sirene d’allarme.

Stavano dominando, i campioni, al Dall’Ara: anche se non più con la brillantezza che ne aveva scandito l’avvio (gran gol di Perisic, tunnel e sventola mancina dal limite) fino al pareggio di Arnautovic, l’Ibra della Dotta (di testa, su cross di Barrow: imparabile, a scanso di equivoci). Un assedio monotono come molti dei miei pezzi, più tracce di pericolo che occasioni vere e proprie. E tante, tante mischie. Forza d’inerzia, più che forza.

Il Bologna di Sinisa era raccolto attorno a Medel. Aveva ridotto drasticamente le sortite. Ballava. Soffriva. Ma ringhiava. Non mollava. D’improvviso, quella palla innocua a Radu, gli alluci che stridono, e Sansone che, ingordo, lo fa «morire» con tutti i Filistei.
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