Il buio prima della siepe

Roberto Beccantini23 giugno 2016

Un quarto d’ora bastava ad Andy Warhol, non a Insigne. Il suo palo è stato un mortaretto nel buio della nostra partita. In campo c’erano le riserve, e l’Irlanda si giocava la vita. Ha vinto con merito, e basta con l’alibi del terreno, tra i più sozzi d’Europa; valeva anche per gli avversari. Insigne è entrato agli sgoccioli, quando O’Neill ci credeva un po’ meno e Conte un po’ di più. Non facciamone un piccolo eroe, ma teniamolo presente.

Era una Nazionale senza filtro in mezzo e in difesa, là dove il ct aveva rischiato Bonucci, diffidato, ricavandone una vaghezza che ci è costato il gol di Brady (nomen omen).

Costretti a inventarci squadra in partita e non in allenamento, non siamo riusciti a ribaltare quel deficit di qualità che subito ha coinvolto i Bernardeschi e i De Sciglio, i Florenzi e gli Sturaro. Potrei continuare, ma avete capito: tutti. Con Zaza medianizzato e Immobile abbandonati spesso al loro destino.

Il risultato rende giustizia a coloro che più e meglio l’hanno inseguito, non importa come: a spallate, a mischie, a sciabolate. Quanti sgorbi tecnici, i nostri. Un’occasione buttata, sì, ma calcolata: anche se pensavo di pagare, sul piano organizzativo, un prezzo meno esoso.

Prima sconfitta, prima rete al passivo: in fin dei conti era quasi un’amichevole, per noi. Con la Spagna tornano i guerrieri, i titolari sono loro, lo si è visto e capito anche dal confuso zibaldone di Lilla. L’Italia ha giocato bene con il Belgio, male con la Svezia, malissimo con l’Eire (ma era l’Italia di scorta). L’ultima partita «vera» risale al 17 giugno. Un pit stop di dieci giorni dovrebbe garantire, almeno, un congruo rifornimento. La Spagna è più forte, ma non imbattibile. Nessuno lo sembra, in questi Europei. Anche se, vedi Cristiano Ronaldo, certi giocatori e certi valori cominciano a emergere.

Elogio di un muro (si può?)

Roberto Beccantini17 giugno 2016

Il filo che lega Belgio-Italia 0-2 a Italia-Svezia 1-0 è un filo di ferro. Si chiama fase difensiva. Buffon, Barzagli, Bonucci, Chiellini e il resto della squadra. Non è tutto lì, ma tutto comincia da lì. Come a Berlino, dieci anni fa. Non siamo i più forti, e difficilmente lo diventeremo. Ma in questo Europeo che spesso paga alla fine, e la cui media gol ha appena toccato i due a partita, siamo già agli ottavi e se penso all’aria fritta e tragica di un mese fa, bè, qua la mano.

In due gare, una parata di Buffon, una sola: su Nainggolan, lunedì sera. E non più di due palle-gol concesse: a Lukaku e a Origi. Nella tonnara che è il calcio di fine stagione, i «bastardi» della stampa francese sanno essere anche sceriffi. Occhio, però, alle tirate di maglia: Lichtsteiner l’hanno beccato, Bonucci quasi.

Ha deciso l’attaccante che avrei tolto: Eder. Invece Conte ha richiamato Pellè. Meno male. Non capita spesso di segnare da rimessa laterale: Chiellini, Zaza, Eder. La sgrullata di Zaza è stata cruciale, non solo preziosa, con una torsione da lottatore. A conferma che, in assenza di fuoriclasse, un quarto d’ora di popolarità non si nega a nessuno, basta iscriversi e volerlo.

Gol a parte, sono state la ripresa della squadra e la traversa di Parolo a giustificare il diritto alla vittoria, fin lì molto esiguo. Erano sei, gli juventini in campo nel finale. Un dettaglio che regalo alla vostra sportività. Era una partitaccia da zero a zero, con Ibra che aveva bisogno dei muscoli di Chiellini o chi per lui – come Alì dei pugni di Foreman, a Kinshasa – per creare quell’atmosfera da «rumble in the jungle» che tanto lo eccita.

Bravi noi a studiare il Belgio. Bravo Hamren a studiare noi (e, per un tempo, a romperci le scatole). Poi, però, alla riffa degli episodi è entrato Zaza ed «uscito» Eder. Conte corrente.

Due parole su Pjanic

Roberto Beccantini15 giugno 2016

Alcuni pazienti mi chiedono un parere su Pjanic alla Juventus. Penso questo. Sono soltanto due i giocatori che, oggi al mondo, possono spostare una stagione: Leo Messi e Cristiano Ronaldo.

Il fuoriclasse, per me, ha bisogno di un pallone; il campione, di una squadra, Miralem Pjanic non è un fuoriclasse, anche se ne ha i colpi: come le punizioni, il tiro e il dribbling (a patto che lo eserciti al fronte, nelle zone smilitarizzate sono capaci tutti).

E’ un po’ lento, ha 26 anni, l’età giusta, e svolge mansioni che fluttuano tra il rifinitore e la mezzala. Nella Roma di Garcia giocava a ridosso delle punte, nella Roma di Spalletti più indietro, con Nainggolan più avanti. Pjanic è un eccellente giocatore, tendente al campione, con scorte di fantasia che non fanno pensare al serbatoio di un jumbo ma neppure a quello di un motorino.

Appartiene alla scuola della ex Jugoslavia, scuola che per indolenza e indisciplina (si è poi capito quali ne fossero le cause) ha vinto la metà della metà di quello che avrebbe dovuto. Alla discontinuità di fondo va poi aggiunta la discontinuità del ruolo. Chi gioca lì fornisce qualità, non quantità. Fermo restando che si deve sempre tendere al massimo, cioè alla quantità della qualità.

E’ costato 32 milioni, non mi dispiace anche se non ne ho mai fatto una malattia. Ma io non conto, conta l’idea. Se una società come la Juventus e un allenatore sulla cresta dell’onda come Allegri hanno puntato dritti su di lui, nessuna obiezione. Da Draxler a Hernanes mi perdo; da Pjanic a Pjanic mi oriento. Come il Dybala di un’estate fa: sarà lui il dopo Tevez. Nascosti sulla sponda del fiume, caricammo i moschetti. Lo fu.

E comunque, la penso come la pensa Silvano Ramaccioni: «Si può sbagliare un acquisto, non si può sbagliare una cessione».