Due parole su Pjanic

Roberto Beccantini15 giugno 2016

Alcuni pazienti mi chiedono un parere su Pjanic alla Juventus. Penso questo. Sono soltanto due i giocatori che, oggi al mondo, possono spostare una stagione: Leo Messi e Cristiano Ronaldo.

Il fuoriclasse, per me, ha bisogno di un pallone; il campione, di una squadra, Miralem Pjanic non è un fuoriclasse, anche se ne ha i colpi: come le punizioni, il tiro e il dribbling (a patto che lo eserciti al fronte, nelle zone smilitarizzate sono capaci tutti).

E’ un po’ lento, ha 26 anni, l’età giusta, e svolge mansioni che fluttuano tra il rifinitore e la mezzala. Nella Roma di Garcia giocava a ridosso delle punte, nella Roma di Spalletti più indietro, con Nainggolan più avanti. Pjanic è un eccellente giocatore, tendente al campione, con scorte di fantasia che non fanno pensare al serbatoio di un jumbo ma neppure a quello di un motorino.

Appartiene alla scuola della ex Jugoslavia, scuola che per indolenza e indisciplina (si è poi capito quali ne fossero le cause) ha vinto la metà della metà di quello che avrebbe dovuto. Alla discontinuità di fondo va poi aggiunta la discontinuità del ruolo. Chi gioca lì fornisce qualità, non quantità. Fermo restando che si deve sempre tendere al massimo, cioè alla quantità della qualità.

E’ costato 32 milioni, non mi dispiace anche se non ne ho mai fatto una malattia. Ma io non conto, conta l’idea. Se una società come la Juventus e un allenatore sulla cresta dell’onda come Allegri hanno puntato dritti su di lui, nessuna obiezione. Da Draxler a Hernanes mi perdo; da Pjanic a Pjanic mi oriento. Come il Dybala di un’estate fa: sarà lui il dopo Tevez. Nascosti sulla sponda del fiume, caricammo i moschetti. Lo fu.

E comunque, la penso come la pensa Silvano Ramaccioni: «Si può sbagliare un acquisto, non si può sbagliare una cessione».

«Giac» che ci siamo

Roberto Beccantini14 giugno 2016

E’ sempre emozionante e istruttivo quando una squadra senza talento batte dei talenti senza squadra. Dico subito che il 2-0 di Italia-Belgio è persino esagerato, non però la sua morale, la sua lezione. In questi casi, è consigliabile evitare gli eccessi. Conte è un allenatore che seduce. Meno fuoriclasse ci sono, e più l’adesione diventa totalizzante, reciproca. L’ho scritto: non ricordo una Nazionale più modesta di questa. Ma non rammento neppure una Nazionale con un cuore così grande e dall’organizzazione così marcata.

In passato ci si scannava attorno a Totti e Del Piero. Oggi, il convento offre El Shaarawy o Darmian, Eder o Zaza. La classe disordinata dei belgi, secondi nella classifica Fifa, si è consegnata alle sbarre del nostro mordi e fuggi, del nostro catenaccio (ma sì). Siamo stati fortunati, ma non abbiamo rubato nulla: se Lukaku si è mangiato il pari, Pellé avrebbe potuto raddoppiare già nel primo tempo. Devono migliorare, gli azzurri, nell’ultimo passaggio e nella gestione di quegli attimi in cui la partita sembra sfuggire e bisogna aggrapparsi a tutto, anche ai gialli.

I gol portano la firma di Giaccherini e Pellè. Giaccherini è un pupillo di Conte. Lo volle alla Juventus, strillò quando Marotta lo cedette. Bonucci in versione Pirlo, Giac in versione attaccante di razza: stop di sinistro e destro nell’angolino. Poi il muro della Bbc, le volate di Candreva, lo spirito di sacrificio di tutti. Vincere la prima ci ha spesso illuso. Penso al Prandelli brasiliano e al Sacchi inglese. Sarebbe però superficiale, adesso che è stato domato, ridurre il Belgio al rango di brocchi. Così come sarebbe demenziale sottovalutare la Svezia di venerdì.

Abbiamo una squadra. Si sapeva. Abbiamo una squadra capace di liquidare i signori del mercato (Hazard, De Bruyne, Nainggolan, eccetera). Non si sapeva (o meglio: il gentile Lex sì, io no).

Tedeschi ma non troppo

Roberto Beccantini12 giugno 2016

I tedeschi sono i secchioni del calcio. Se a un Europeo o a un Mondiale non ottengono il massimo dei voti, ci vanno vicino. Hanno cambiato stile, dalle sportellate della tradizione – beninteso, sempre agli ordini di un Kaiser; l’ultimo, Beckenbauer – sono passati al meticciato e al torello. All you need is Loew.

Li aspettavo, curioso, al battesimo di Lilla. Non credevo ai miei occhi. Non sembrava la Germania uber alles dei sacri testi. Sembrava, al contrario, una scolaresca che avesse marinato le lezioni, subito in vantaggio con la riserva di Hummels (Mustafi), vicina al raddoppio con Khedira (lui e Kroos, tra i migliori), ma poi alla mercé dei badanti ucraini, capaci di trasformare in Neuer, grande, persino il «tecnologico» Boateng. Tanto che, se il primo tempo fosse finito in parità, sarebbe stato un atto di giustizia, mica una sorpresa.

La rinuncia a un totem d’attacco toglieva profondità. Draxler, Ozil, Muller e Goetze in versione falso nueve sfogliavano i libri con la testa altrove. Svagati. Lenti. Sterili. Interrogati, Konoplyanka, Yarmolemko e Shevchuk riuscivano a fare bella figura. Possibile? Per un tempo, almeno. Alla ripresa, i tedeschi sono tornati i primi della classe. Salvo un tamponamento Neuer-Mustafi nel finale, avrebbero potuto, e dovuto, dilagare. Anche l’Ucraina, però, aveva un portiere: Pyatov. Il raddoppio di Schweinsteiger, guerriero antico e logoro, ma sempre guerriero, appartiene alle mance che spesso il destino, prendendo in contropiede l’abnegazione degli umili, concede ai più ricchi.

L’Ucraina era calata. La Germania era cresciuta. Resta da pianificare l’attacco, come reparto e nelle azioni. In Brasile c’era Klose. La pancia piena è come il canto delle Sirene: urge turare i garretti con la cera. E sperare che non si sciolga.