Conte in banca

Roberto Beccantini21 febbraio 2021

Per garantirsi la difesa che a Coverciano chiamano «bassa», l’Inter di solito segna subito. L’ha fatto anche nel derby, con Lau-Toro, di testa, su pennellatina di Lukaku. Era il 5’. Dopodiché, non prima di aver sparato altre cartucce, tutti indietro, con falò di pressing e lampi di contropiede.

Il Milan ne è uscito travolto e stravolto. Zero a tre. Lento per un tempo, con Ibra accerchiato e schermato (da Brozovic), ci ha provato in avvio di ripresa. E qui, parafrasando Jim Morrison, se a volte basta un attimo per scordare una stagione, a volte non basta una gaffe (quello di coppa, su Cierre) per scordare i due minuti di Samir Handanovic: doppia paratona su Ibra e gran riflesso su Tonali. Chapeau.

Stava premendo, la squadra di Pioli, e Conte, felice, non pensava alle censure dei fusignanisti, alle menate sulla difesa a cinque che in Champions non tira: qui è Rodi e qui bisogna arretrare.

Morale della favola: transizione tra Hakimi (meglio di Theo), Eriksen (sempre meglio), Perisic (meglio di Calabria) e bis di Martinez, il migliore del mazzo. Poi, con il Diavolo stracciato in avanti e il totem svedese abbandonato dai sudditi, ecco lo schema Lukaku: da metà campo allo sparo, con Romagnoli invano ciondolante attorno alle sue spalle.

Tutto qua. E non è poco. Per la cronaca, e per la storia, Ibra e Luka si sono ignorati. Ognuno per la sua strada. Lo svedese, sostituito (addirittura); il belga, un assist, un gol e capocannoniere. Il Milan non è più il Milan dell’andata, anche (ma non solo) perché ha perso Bennacer e giocato giovedì a Belgrado. Quattro sconfitte nelle ultime otto partite. L’Inter, viceversa, cinque vittorie nelle ultime sei.

L’impressione era che il Diavolo avesse di fronte un muro; l’avversario, una porta socchiusa. Era da dieci anni che il derby non valeva per lo scudetto. Più quattro sul Milan: fuori da tutto, l’Inter di Conte è in fuga da tutti.

Catenaccio e Lukaku

Roberto Beccantini14 febbraio 2021

Fuori dall’Europa dal 9 dicembre, e dalla Coppa Italia da martedì scorso, l’Inter di Conte si issa in cima al campionato. E’ la prima volta. Ha regolato la Lazio per 3-1 dopo che, per 2-0, lo Spezia aveva surclassato il Milan. E domenica c’è il derby. Tempi duri per gli sventolatori del possesso palla. Madama a Napoli, la Lazio al Meazza. Conte non è più l’esploratore spaziale del primo anno chez Agnelli, quando per entrambi sembrava sempre san Valentino. Ha lasciato che la fanteria leggera di Inzaghino venisse avanti, opponendo l’elmetto di Skriniar all’uncinetto di Lui Alberto e le altre sartine. Ha liberato i muscoli di Lukaku, due gol e un assist. L’uomo-squadra, oggi, più decisivo. Palla a lui, palla in banca. Non sempre. Spesso. Sedici reti, come Cristiano.

Veniva, la Lazio, da sei vittorie. L’Inter non ha sfondato, questa volta, dalla parte di Hakimi. Dall’altra parte: rigore su Lau-Toro, trasformato da Lukaku, al culmine di un’azione alla mano, e bisturi del belga armato da un passaggio carambolato di Brozovic. In entrambi i casi, difesa dormiente o comunque distratta.

La fine era nota. Delle Aquile lotitiane ricordo un destro di Immobile, murato da Handanovic e una fitta ragnatela di tocchi e ritocchi che non hanno mai sabotato il disegno tattico dei rivali. Anzi: appena potevano, Brozovic, Barella ed Eriksen sbirciavano la prateria e invitavano Lukaku e Lau-Toro all’uno contro uno.

Elementare, Watson. In Italia l’attesa paga più che all’estero, e proprio l’Inter ne sa qualcosa. Sono mancati, alla Lazio, i tenori, tutti: Immobile, Luis Alberto, Milinkovic-Savic. E Lazzari ha trovato in Perisic pane per le sue volate. Morale: l’Inter è stata verticale; la Lazio, orizzontale. Dalla ripresa, se si escludono l’effimero rattoppo di Escalante e la sgommata con cui Luka ha demolito Parolo e spalancato la porta a Martinez, è uscito solo fumo. L’arrosto era già stato servito.

Federico Ronaldo

Roberto Beccantini6 gennaio 2021

Asl o non Asl, Covid o non Covid, si è giocato e mi sono pure divertito. Ha vinto la squadra meno decimata, più esperta e, nonostante o sopra tutto, con più cambi. Il Milan era imbattuto da 27 turni e da 17 partite segnava almeno due gol. Non questo Milan, d’accordo, se spulciamo la formazione. Non l’ha decisa Cristiano, voto cinque. L’ha decisa Federico Chiesa, le cui soluzioni balistiche (palo, due gol: il primo di destro, il secondo di sinistro) sembravano uscite, sic et simpliciter, dall’arsenale di papà Enrico. Lo marcava Theo Hernandez: un tir, quando attacca; non proprio un antifurto, quando difende. Il ring era tutto lì: Church per k.o.

I due assist li aveva serviti Dybala in versione trequartista, un signor tacco e un signor tocco. Se Pirlo aveva rischiato Frabotta, dignitosissimo, Pioli si è inventato – per forza – Calabria mezzala: e dal momento che il calcio è buffo, proprio il Davide milanista aveva firmato l’uno pari. Visti i tempi che corrono (più, ormai, dei giocatori), l’ordalia non ha annoiato. Sembrava in controllo, Madama, ma gli sgorbi di Bentancur e Ramsey spalancavano la porta a Castillejo e Leao, murati da Szczesny, puntuale sempre. Sembrava in controllo il Diavolo, alla ripresa, allorché Dybala e Chiesa hanno ridisegnato i confini della notte. Poi i cambi. Sarà un caso, ma il 3-1 l’hanno siglato due panchinari, McKennie su percussione di Kulusevski.

Più di cosi, senza Ibra and friends, il Milan non poteva fare. Anche così, senza Morata e i terzini titolari, la Juventus mi ha dato l’idea che un po’ meglio avrebbe potuto gestire. Sento peana a Rabiot, calma. La sconfitta dell’Inter lascia il Milan al primo posto. Sul baratro ciondolava la Tiranna: il successo la porta a meno 7 (con il «tavolino» del Napoli da recuperare). E ha battuto una Grande. Di più: per incerottata che fosse, la capolista.