Capriole tempestose

Roberto Beccantini9 agosto 2020

Un paziente, il gentile Causio, mi chiede due righe sulla scelta di Pirlo. L’avevo definita, in chiusura di «Manicomio (senza trattino)», l’analisi pubblicata ieri, sabato, «un azzardo che va oltre la scommessa di Sarri. Molto oltre. Forse troppo». Appunti, spunti e punti in ordine sparso.

1) C’entra il bilancio, naturalmente.

2) C’entra Cristiano, altrettanto naturalmente: anche se, fino al Lione, il «patteggiamento tattico» di Sarri era stato preso, se non proprio a modello, quanto meno a discarico (perfino dal sottoscritto). Dicono che sia stato Paratici (complimenti) a convincere «C’era Guevara» a volare dal Marziano per chiedergli se se la sarebbe sentita di giocare centravanti. Cierre gli rispose come Bartleby, lo scrivano di Herman Melville: «Preferirei di no».

3) Da quando Marotta ha lasciato Torino, due esoneri in due anni. E sempre dopo campionati vittoriosi. Pura coincidenza?

4) I Sacchi, i Sarri sono stati giocatori normali, normalissimi. Per questo hanno cercato nella dottrina l’anormalità del messaggio. Pirlo, all’opposto, è stato giocatore anormale e per questo, immagino, cercherà nella normalità il messaggio della dottrina. Lui così silenzioso, così tenebroso.

5) Se la rosa non viene rinfrescata, temo che saranno cavoli amari anche per Sua Geometria, la cui gavetta è pari a zero.

6) D’improvviso, Agnelli si è zamparinizzato. Se cacci due tecnici nel giro di due estati – due tecnici che, soprattutto, esprimono filosofie opposte, la gestione e la visione – qualcosa non va. Nella squadra o nella testa (sua, di Andrea). Anche perché il terzo, Pirlo, non dovrà che diventarne una forzata sintesi.

7) A maggior ragione, con scelte così trancianti, così chirurgiche, è Agnelli stesso a rivelare che gli scudetti sono tutt’altro che «imprese», e che la Champions non è più né un sogno
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Anastasi, centravanti vero

Roberto Beccantini18 gennaio 2020

Si spera sempre, anche quando il silenzio fa pensare, e temere, più del rumore. Pietro Anastasi se n’è andato a 71 anni, era nato a Catania, la Catania di Massimino, di un altro secolo, di un altro calcio. E’ stato attaccante di razza, come si scriveva un volta, dallo scatto rapace, il tiro lampo e non tuono, gli stop a «inseguire» che, senza scalfirne la fame e la fama sotto porta, si trasformarono in una sorta di allegro marchio: di quel securo il fulmine tenea dietro al baleno.

Giocava nel Varese, una tripletta alla Juventus lo portò proprio a Torino quando sembrava già dell’Inter, e con l’Inter stava disputando un’amichevole. Intervenne l’Avvocato, che rifornì di compressori i frigoriferi di Giovanni Borghi, l’allora presidente del Varese. Motori e milioni: 400. Giocò, nella Juventus, dal 1968 al 1976, vinse tre scudetti, litigò con Parola, Boniperti lo girò all’Inter in cambio di Boninsegna: e la storia s’impennò. Poi Ascoli, poi Lugano. Poi la tv.

Fu campione d’Europa nel 1968, con tanto di gol nella finale-bis contro la Jugoslavia all’Olimpico. Uno scherzo in ritiro diventato incidente lo escluse, d’improvviso e proprio in extremis, dalla spedizione messicana del ‘70. I tifosi lo chiamavano «Pelé bianco». Lo cantò Vladimiro Caminiti, siciliano come Pietro, ma di Palermo. Come Causio, leccese, Anastasi era figlio di quel sud che negli anni Sessanta accompagnò il grande flusso migratorio verso Torino, verso la Fiat, verso la Juventus, in un’operazione che unì amori e rancori, difficoltà d’inserimento e senso di appartenenza.

Non aveva le pupille schillaciane, Pietro, ma lo ricordava. Era un centravanti d’area, piroettava in un fazzoletto, la sua polvere da sparo era l’istinto. Lascia il vuoto dei compagni di viaggio che ci hanno regalato un sospiro, un sorriso, un’avventura.

Pastori tedeschi

Roberto Beccantini11 dicembre 2019

Sia chiaro: resta la sera dell’Atalanta. La Juventus si è limitata a reggerle lo strascico pascolando a Leverkusen. Regina del gruppo D, già qualificata e prima, non aveva bisogno di niente se non di sé stessa: per reagire al k.o. dell’Olimpico, per riprendere i cocci di quella splendida mezz’ora all’inizio. Sarri, lui, cercava il 22° risultato utile consecutivo in Europa: l’ha avuto. Il Bayer è sesto in Bundesliga e, legato com’era al risultato del Wanda, poteva contare su spiccioli rari. E modesti.

Non sono spareggi, non sono allenamenti: sono partite che se le domi, nessuno ti fila, ma se ti scappano, tutti sghignazzano. Do you remember la notte dello Young Boys, a Berna? Il turnover di «C’era Guevara» era ovvio. Pescando qua e là: molto bene Demiral, che avevo lasciato alla rovine del pomeriggio veronese; e con lui, o proprio grazie a lui, bene pure Rugani. In crescita Danilo e De Sciglio. Pilota automatico, cioè Pjanic. Cuadrado mezzala, insomma. Rabiot: lo vedo ancora sfondo del presepe, e non statuina; «eppur si muove», avrebbe detto qualcuno (!), ma c’è modo e modo. Il timing è come l’amalgama: non si compra, si impara.

Con Bernardeschi devo ripetermi: fino all’ultimo tocco, da sette; dopodiché, spesso, precipita a quattro (per la scelta, per la misura). Sono arrivati, i gol di Cristiano e Higuain, con l’ingresso di Dybala. C’è chi può e chi no. Natalizia negli addobbi, l’azione del primo: comincia da un tunnel di De Sciglio (wow), prosegue con Pjanic finché l’Omarino non la gioca, da par suo, per il Marziano. Tocco da due passi, come sabato. Dybala c’entra anche sul secondo: casuale, ma preziosa, la sponda per il Pipita.

Ricapitolando. Sedici punti, qualche lampo, piccoli momenti di trambusto e una tenuta fisica, e di testa, in linea con le esigenze. Che non erano eroiche ma neppure banali. Perché in Europa, se sbagli, paghi.