Pastori tedeschi

Roberto Beccantini11 dicembre 2019

Sia chiaro: resta la sera dell’Atalanta. La Juventus si è limitata a reggerle lo strascico pascolando a Leverkusen. Regina del gruppo D, già qualificata e prima, non aveva bisogno di niente se non di sé stessa: per reagire al k.o. dell’Olimpico, per riprendere i cocci di quella splendida mezz’ora all’inizio. Sarri, lui, cercava il 22° risultato utile consecutivo in Europa: l’ha avuto. Il Bayer è sesto in Bundesliga e, legato com’era al risultato del Wanda, poteva contare su spiccioli rari. E modesti.

Non sono spareggi, non sono allenamenti: sono partite che se le domi, nessuno ti fila, ma se ti scappano, tutti sghignazzano. Do you remember la notte dello Young Boys, a Berna? Il turnover di «C’era Guevara» era ovvio. Pescando qua e là: molto bene Demiral, che avevo lasciato alla rovine del pomeriggio veronese; e con lui, o proprio grazie a lui, bene pure Rugani. In crescita Danilo e De Sciglio. Pilota automatico, cioè Pjanic. Cuadrado mezzala, insomma. Rabiot: lo vedo ancora sfondo del presepe, e non statuina; «eppur si muove», avrebbe detto qualcuno (!), ma c’è modo e modo. Il timing è come l’amalgama: non si compra, si impara.

Con Bernardeschi devo ripetermi: fino all’ultimo tocco, da sette; dopodiché, spesso, precipita a quattro (per la scelta, per la misura). Sono arrivati, i gol di Cristiano e Higuain, con l’ingresso di Dybala. C’è chi può e chi no. Natalizia negli addobbi, l’azione del primo: comincia da un tunnel di De Sciglio (wow), prosegue con Pjanic finché l’Omarino non la gioca, da par suo, per il Marziano. Tocco da due passi, come sabato. Dybala c’entra anche sul secondo: casuale, ma preziosa, la sponda per il Pipita.

Ricapitolando. Sedici punti, qualche lampo, piccoli momenti di trambusto e una tenuta fisica, e di testa, in linea con le esigenze. Che non erano eroiche ma neppure banali. Perché in Europa, se sbagli, paghi.

Te Deam

Roberto Beccantini11 dicembre 2019

Passare dal Te Deum alla Te Deam non credo che sia blasfemo. E’ riconoscere i meriti e i contorni di un’impresa. L’impresa dell’Atalanta capace di risorgere da tre sconfitte e strappare in Ucraina, allo Shakhtar Donetsk, i primi, favolosi, ottavi di Champions.

Tre a zero. In alto i calici e in alto i cuori, voi anime brave. Aveva bisogno di tanto Gasperini, magnifico condottiero, uno dei pochi che insegnano calcio e, con questo, decorano le squadre. Ci riuscì al Genoa, sta concedendo il bis, e che bis, a Bergamo, dove ha, semplicemente e meravigliosamente, rifondato l’Atalanta. Non ebbe fortuna, e nemmeno tempo, all’Inter del dopo triplete, dove, peraltro, le lancette dello scudetto sono ancora ferme alla vendemmia del 2010.

Doveva vincere, l’Atalanta, e aveva bisogno che le desse una mano il Manchester City, a Zagabria. Gliel’ha data, come no: e, già che ci siamo, gliel’ha data pure l’arbitro, tollerante con Muriel e severo con Dodo. Mancavano Zapata e Ilicic, la «bestia» e la «bella». Ci ha pensato il Papu, hanno provveduto quelli del coro, Castagne, Pasalic e Gosens, autori dei gol. E anche Gollini, quando il gioco si è fatto duro, ci ha messo del suo.

Il rosso a Dodo, sullo 0-1, ha spianato una strada che il ritmo e le trame di De Roon e Gomez avevano già disboscato. L’Atalanta è la ventunesima squadra della Premier che gioca, per domicilio geografico e scelta tecnico-strutturale, nel nostro campionato. Morde e non fugge. Marca a uomo avanzando. Vive il calcio come una sfida e non una scommessa.

L’esempio viene dall’alto: da quel Percassi, padrone e presidente, che resistette dal licenziare Gasp il primo anno, dopo i triboli introduttivi, né pochi né lievi.

Il resto non è più cronaca. E’ storia di provincia. Bella e romantica.

Non solo sprechi. E su Ancelotti…

Roberto Beccantini10 dicembre 2019

Una lezione, non mi vengono altre parole. Al di là degli episodi, degli sprechi, dei gol annullati per fuorigioco (tre). Una lezione. Era il Barcellona di scorta, con Messi Sesto rimasto a casa e una nidiata di seminaristi agli ordini di Vidal (nostalgia canaglia) e Rakitic (perché no). All’Inter mancavano le bussole di centrocampo. Conte lascia, dunque, la Champions e scivola in Europa League, sfrattato da quel Borussia che aveva regolato a San Siro e stava demolendo a Dortmund. Stava.

Poco da obiettare, se fosse finita così con il Barça al completo. Ma è finita così, ripeto, contro le riserve. E l’Inter, oggi, è la regina del campionato. Brutto segno, per i megafoni domestici.

Ci ha provato, l’Inter, con la palla lunga e i fraseggi piccoli. Ma Brozovic era soffocato, Lukaku giù di mira (pareggio a parte) e dalla panchina è arrivato poco: penso a Lazaro. La differenza esula, però, dal taccuino. Si annida nel gioco, la scuola che assorbe, conquista e trasforma chiunque vi acceda. Fino ai cambi, che hanno dato molto più a Valverde Non solo o non tanto Suarez e de Jong, che sono pur sempre un pistolero e un signor regista. Soprattutto, Ansu Fati: ha 17 anni, e se il gol di Perez era stato frutto di un auto-assist di Godin, il suo è stato un gioiellino di biliardo. Alta oreficeria.

Migliore dell’Inter, Lau-Toro: faceva a sportellate con tutti, raccoglieva mozziconi e li offriva in giro, ma le occasioni più ghiotte le ha avute Lukaku, e a certi livelli non puoi sbagliare. La Roma, graziata, pareggiò. Il Barcellona B, risparmiato, ha vinto. Era un’occasione unica: inutile girarci attorno.

Chiudo con il Napoli. Facile vendemmia con il Genk, tripletta di Milik più Mertens. Augurando a Gattuso di diventare il suo Di Matteo, l’esonero di Ancelotti mi sembra, francamente, una c. pazzesca. Alla Fantozzi della corazzata Potemkin.