Barbera e champagne

Roberto Beccantini18 novembre 2019

Barbera è lo stadio di Palermo e lo champagne è per il 9-1 alla docile e decimata Armenia, ai record esplosi come petardi (11 vittorie consecutive, 10 su 10 nelle eliminatorie e nell’anno solare, eccetera eccetera). Per la verità, Giorgio Gaber cantava di un tizio triste (un armeno, forse?) al tavolo di un bar col suo bicchiere di Barbera, e del suo vicino in abito da sera triste (triste? ma no, era Mancini) col suo bicchiere di champagne.

Due anni, e non potendo parlare di un’altra nazione (do you know Venezia?) parliamo e brindiamo, se non altro, a un’altra Nazionale. Con la cautela, almeno da parte del vecchio scriba, che risultati così obesi – e comunque non scritti: da scrivere – suggeriscono. Il carro del Mancio è strapieno, oggi, e per un tifoso non italiano sarebbe complicato – e, detto fra di noi, indelicato – scendervi un domani: ma per un italiano…

Ricapitolando: doppiette di Immobile e Zaniolo (destro, poi sinistro), acuti di Barella, Romagnoli, Jorginho (su rigore), Orsolini (all’esordio) e Chiesa (al primo gol). Li ho citati in ordine sparso, così, perché non citarli non potevo: è un tabellino che agita i topi d’archivio e l’orgoglio crivellato da troppo fuoco amico.

A voler fare la maestrina dalla penna rossa cara a De Amicis, Bonucci e Jorginho hanno compiuto scarabocchi dai quali gli avversari hanno ricavato una traversa e la rete della staffa. Resta, gradita ai palermitani, la felecità leggera di una vendemmia che non rientra nella tradizione della casa, abituati come siamo (o come eravamo?) a porgere l’altra guancia («Per fortuna, sono solo due», chiosava giulivo il divo Giulio Andreotti).

Per dire che l’Italia del Mancio diverte e si diverte hanno scomodato persino Sacchi. E allora ripiego su Nicolò Zaniolo, classe 1999, fisico, tecnica e tritolo. In attesa che l’Europa dei grandi ci pesi al netto dei meriti e delle iperboli, questo è tutto.

Non si sbadiglia più

Roberto Beccantini15 novembre 2019

Il calcio della Nazionale è tornato a essere un calcio che non «rompe», come invece capitava in passato. Avversari più robusti e pressioni meno docili ci aiuteranno ad aggiornare il peso di questa squadra al netto della propaganda e delle dieci vittorie consecutive, una in più dell’era Pozzo, nuovo record. E’ stato bravo, Roberto Mancini, a raccoglire i cocci di Ventura, e a costruirci sopra un piccolo castello di romantica suggestione.

Il 3-0 alla Bosnia non è stato banale. Si giocava a Zenica ed eravamo già stra-qualificati (per l’Europeo), agio che di solito ci spinge a privilegiare il calendario all’impegno. C’era Dzeko, c’era Pjanic. La Bosnia ha problemi non meno grossi della pancia di Prosinecki, ma l’Italia l’ha subito presa per il bavero. E’ piaciuto persino Bernardeschi, un giovanotto che nasconde spesso l’arrosto sotto un fumo denso, da bivacco del west.

Belli i gol: di Acerbi, centravanti studiato, su azione Bernardeschi-Barella; di Insigne, su trama Bernardeschi-Belotti; di Belotti, su lancio verticale di Barella. E quando c’è stato da rinculare, ecco Donnarumma. Da tempo, si gioca in trasferta come in casa e questo, al di là degli alti e bassi fisiologici, costituisce un eccellente spunto di riflessione. E di personalità.

Tonali vice Verratti ha retto la tensione, l’infortunio di Pjanic, i debutti di Castrovilli e Gollini hanno decorato l’epilogo. Prendete Insigne: quante volte abbiamo scritto che nel Napoli gli riusciva tutto e in Nazionale meno, molto meno? Non dico che stia succedendo il contrario, ma quasi. In assenza di campioni conclamati, e di leader vecchia maniera, nessuno si nasconde e così tutti crescono, devoti al catechismo del ct.

Chiudo con Vialli, al battesimo come capo-delegazione, nel ruolo che fu di Gigi Riva. Lotta da una vita, questa volta per la vita. Forza Gianluca.

La panchina d’oro

Roberto Beccantini10 novembre 2019

Scendo trafelato dalla giostra forsennata di Liverpool-Manchester City e cosa trovo? Cristiano sostituito e smoccolante (ahi ahi); la Juventus che, come a Mosca, vince con il colpo del singolo e non con il «giuoco»; un Milan che non avrebbe meritato di perdere ma perde, allo Stadium sono già nove su nove, non prima di aver issato Szczesny sul podio più alto.

Quante cose, mamma mia. Anche se, permettetemi, le solite cose (al netto della propaganda). Pioli insista: in rapporto alla rosa (da sesto posto) e all’avversario è stato in partita fino alla fine, dopo aver provato a farla e, in alcuni frangenti, esserci riuscito. Mi è piaciuto molto Conti, un terzino al quale il destino aveva teso un vile agguato.

Cristiano non avrebbe dovuto giocare. Ci sono gerarchie quasi liturgiche, Sarri l’aveva richiamato già con la Lokomotiv, gli ha concesso un’oretta, togliendola alla squadra, ma poi non ha potuto esimersi. Bravo. Dentro Dybala. Un gioiello, il suo gol di destro, come il lampo di Douglas Costa in Champions. Immagino il furore di Conte, collezionista emerito di menu.

Brutta Juventus, a prescindere. Lenta, piatta, imprecisa. Ad Allegri occupare la metà campo altrui non importava un fico; per Sarri, viceversa, è questione di vita o di morte. Schiacciata tra filosofie così dispari, la squadra ha ruminato calcio, alla caccia di un Marziano che, da soluzione, sta diventando un problema. L’insubordinazione non sarà facile da governare: e questo è il lato negativo. Il lato positivo è che – in campionato, almeno, e sul piano dei risultati – la Cristiano-dipendenza sembra meno assillante.

Continua a non perdere, la Juventus tornata in testa, continua a non entusiasmare. Certo, aveva giocato mercoledì. Su una panchina nacque, nel novembre del 1897, da una panchina rinasce ogni volta.