Non si sbadiglia più

Roberto Beccantini15 novembre 2019

Il calcio della Nazionale è tornato a essere un calcio che non «rompe», come invece capitava in passato. Avversari più robusti e pressioni meno docili ci aiuteranno ad aggiornare il peso di questa squadra al netto della propaganda e delle dieci vittorie consecutive, una in più dell’era Pozzo, nuovo record. E’ stato bravo, Roberto Mancini, a raccoglire i cocci di Ventura, e a costruirci sopra un piccolo castello di romantica suggestione.

Il 3-0 alla Bosnia non è stato banale. Si giocava a Zenica ed eravamo già stra-qualificati (per l’Europeo), agio che di solito ci spinge a privilegiare il calendario all’impegno. C’era Dzeko, c’era Pjanic. La Bosnia ha problemi non meno grossi della pancia di Prosinecki, ma l’Italia l’ha subito presa per il bavero. E’ piaciuto persino Bernardeschi, un giovanotto che nasconde spesso l’arrosto sotto un fumo denso, da bivacco del west.

Belli i gol: di Acerbi, centravanti studiato, su azione Bernardeschi-Barella; di Insigne, su trama Bernardeschi-Belotti; di Belotti, su lancio verticale di Barella. E quando c’è stato da rinculare, ecco Donnarumma. Da tempo, si gioca in trasferta come in casa e questo, al di là degli alti e bassi fisiologici, costituisce un eccellente spunto di riflessione. E di personalità.

Tonali vice Verratti ha retto la tensione, l’infortunio di Pjanic, i debutti di Castrovilli e Gollini hanno decorato l’epilogo. Prendete Insigne: quante volte abbiamo scritto che nel Napoli gli riusciva tutto e in Nazionale meno, molto meno? Non dico che stia succedendo il contrario, ma quasi. In assenza di campioni conclamati, e di leader vecchia maniera, nessuno si nasconde e così tutti crescono, devoti al catechismo del ct.

Chiudo con Vialli, al battesimo come capo-delegazione, nel ruolo che fu di Gigi Riva. Lotta da una vita, questa volta per la vita. Forza Gianluca.

La panchina d’oro

Roberto Beccantini10 novembre 2019

Scendo trafelato dalla giostra forsennata di Liverpool-Manchester City e cosa trovo? Cristiano sostituito e smoccolante (ahi ahi); la Juventus che, come a Mosca, vince con il colpo del singolo e non con il «giuoco»; un Milan che non avrebbe meritato di perdere ma perde, allo Stadium sono già nove su nove, non prima di aver issato Szczesny sul podio più alto.

Quante cose, mamma mia. Anche se, permettetemi, le solite cose (al netto della propaganda). Pioli insista: in rapporto alla rosa (da sesto posto) e all’avversario è stato in partita fino alla fine, dopo aver provato a farla e, in alcuni frangenti, esserci riuscito. Mi è piaciuto molto Conti, un terzino al quale il destino aveva teso un vile agguato.

Cristiano non avrebbe dovuto giocare. Ci sono gerarchie quasi liturgiche, Sarri l’aveva richiamato già con la Lokomotiv, gli ha concesso un’oretta, togliendola alla squadra, ma poi non ha potuto esimersi. Bravo. Dentro Dybala. Un gioiello, il suo gol di destro, come il lampo di Douglas Costa in Champions. Immagino il furore di Conte, collezionista emerito di menu.

Brutta Juventus, a prescindere. Lenta, piatta, imprecisa. Ad Allegri occupare la metà campo altrui non importava un fico; per Sarri, viceversa, è questione di vita o di morte. Schiacciata tra filosofie così dispari, la squadra ha ruminato calcio, alla caccia di un Marziano che, da soluzione, sta diventando un problema. L’insubordinazione non sarà facile da governare: e questo è il lato negativo. Il lato positivo è che – in campionato, almeno, e sul piano dei risultati – la Cristiano-dipendenza sembra meno assillante.

Continua a non perdere, la Juventus tornata in testa, continua a non entusiasmare. Certo, aveva giocato mercoledì. Su una panchina nacque, nel novembre del 1897, da una panchina rinasce ogni volta.

Costa smeraldo

Roberto Beccantini6 novembre 2019

Vince e si qualifica, la Juventus a Mosca. Vince con il risultato caro all’azienda (2-1), dopo che Semin aveva aspettato Sarri come Kutuzov aspettò Napoleone. La paperissima di Guilherme e il tap-in di Miranchuk, giovanotto di talento, avevano fissato un pari che sembrava roccia. Di qua, insalata russa; di là, insalata lenta. Con una gran parata su Higuain, un paio di spari del Marziano e un salvataggio di Bonucci su Joao Mario.

Poi Douglas Costa. Aveva rilevato un Khedira spremuto. «C’era Guevara» l’aveva sistemato nel mezzo, scelta che accentuava gli ingorghi senza offrire scorciatoie. Perché sì, la Juventus portava la torta e la Lokomotiv cercava di strappargliene un morso, una fetta, ma non è che, sotto il diluvio, Pjanic dirigesse con il piglio del vigile ispirato. E gli altri? Rabiot si arrangiava, idem Rugani su Eder; Ramsey si sforzava di «trequarteggiare»; e Cristiano, udite udite, non c’era più, sostituito da Dybala.

Ignorava le fasce, Madama. Sia Danilo sia Alex Sandro. E così per gli avversari non era un’impresa stringersi attorno a Corluka e smorzare i cross, i fraseggi. A un certo punto, Douglas Costa è finito a destra. Poi a sinistra. Non più al centro, o meglio: meno al centro. Buona idea. Chi scrive, lo preferisce nel movimento esterno-centro, piuttosto che centro-esterno. Il gol che ha firmato, è stato di rara bellezza. Triangolo con il Pipita al limite, dribbling e sinistro affilato sull’uscita di Guilherme.

Il brasiliano fu colui che, alla prima stagione con Allegri, partiva dalla panchina e spaccava le partite. E’ un tipo strano, cagionevole, che si beve i terzini (e non solo). Ha però un pregio, come già emerso fra Parma e il Napoli: la velocità, il cambio di marcia, il gusto del duello. Ingredienti che contribuiscono a fare del menu juventino un ristorante da cento euro.