Gioco corto ma difesa «lunga»

Roberto Beccantini24 settembre 2019

L’errore di Szczesny sul tiro di Donnarumma aveva subito azzerato il teorema Khedira (nessun gol con lui in campo) e costretto la Juventus a inventarsi una partita migliore delle maglie: quelle, orrende, di Firenze. Ci è riuscita. Non c’era Cristiano, c’era Balotelli, c’erano Rabiot e un 4-3-1-2 che offriva a Ramsey l’onore e l’onere di destreggiarsi dietro le punte, Higuain e Dybala, anche se persino il piccolo Sivori partiva spesso da dietro e, insomma, si avanzava «di» gioco corto (oggi, tiki taka), fino a quando un Cistana di passaggio non spazzava via.

Palla al piede, si colgono i ricami che la premiata sartoria Sarri cerca di inculcare, al prezzo di qualche tiro in meno e di qualche filtrante ritardato. Palla agli altri, il lavoro non manca: l’apprendistato di De Ligt continua fra troppi campanili.

Il Brescia di Corini ha badato al sodo, raccolta attorno alle geometrie giovani di Tonali, a un Romulo tuttocampista e a un Balotelli umile, e per questo utile. Sarri si è preso il possesso palla e non l’ha più mollato. E’ la seconda rimonta di Madama, più brillante di quella casalinga con l’Hellas. Se l’autorete di Chancellor è stato un colpetto di chiappa, il collo destro di Pjanic, tra i migliori, va archiviato alla voce «chicche balistiche». E non proprio uno sparo nel buio, se pensiamo alle occasioni di Ramsey, Higuain, Rabiot e Cuadrado, sguinzagliato al posto di Danilo, ennesimo flessore che saluta e se ne va.

Partita fisica ma leale, con un arbitro che è andato a spanne, con la giungla bresciana che confondeva i palleggiatori juventini, tutti tranne Dybala che «c’era Guevara» tiene più o meno nella posizione di Allegri e ha sostituito non senza un briciolo di legittimo fastidio. Al netto di un Rabiot che, alla prima da titolare, sembrava aver sbagliato aula, di un Pipita calante, di un Bonucci gladiatorio e di testi che non subito entrano in testa, piccole tracce crescono.

Troppa differenza

Roberto Beccantini21 settembre 2019

La Juventus di Antonio Conte «cominciò» da un 2-0 al Milan di Ibra e Cassano. La sua Inter è ripartita da un 2-0 nel derby – e, dunque, sempre dal Milan – dopo la magra europea con lo Slavia. Quattro partite, quattro vittorie. E questa, cruciale, molto al di là dell’episodio che l’ha orientata: il fuorigioco di Lautaro sul tiro di Brozovic, sanato – via Var – dalla deviazione di Leao.

E’ stato un derby giocato a spron battuto, che l’Inter si è presa fin dall’inizio, una sgommata dopo l’altra. Non a caso, il migliore del Milan è stato Donnarumma e, sempre non a caso, di Handanovic non ricordo una parata. L’occasione di Lukaku, quella di Lautaro, il palo di D’Ambrosio (anche se era un gol mangiato), tutto o quasi sotto l’ispirazione di un Sensi irresistibile palla al piede (palla agli altri, viceversa, qualche corpo a corpo l’ha sofferto), di un Barella ormai padrone del ruolo e di un tridente difensivo che non ha lasciato passare uno spillo.

Conte è andato sul classico, Giampaolo ha calato, a sorpresa, la carta Leao. Non male, il portoghese. E’ Piatek, semmai, che continua a deludere. Nell’Inter ho colto un’idea, una scintilla; nel Milan solo gambe, solo orgoglio. Si affrontavano le migliori difese e uno degli attacchi più scarsi. Per un’ora non c’è stata partita, o ce n’è stata poca. L’Inter premeva, il Milan si è sempre cibato di momenti, di avanzi.

Il pressing interista ha soffocato Suso e, soprattutto, Biglia, regista di un centrocampo scarno e avaro. Non che Lukaku avesse fatto sfracelli, ma il raddoppio, di testa, è stato una specialità della casa. Lautaro, lui, mi è piaciuto per la «garra». Due sconfitte in quatto partite sarebbero troppe in assoluto, figuriamoci per il Milan (anche se un Milan-cantiere). L’Inter, viceversa, i derby li vinceva pure con Spalletti, ma Conte, quando va in testa, difficilmente se la monta o gliela tagliano.

E il centravanti?

Roberto Beccantini21 settembre 2019

Quando torni dal bicchiere mezzo pieno del Wanda e devi scolarti un Verona, partite così sono all’ordine del giorno. Il pressing di Juric ha costretto la Juventus a giocare in contropiede. Un pressing di gruppo e di speroni, a rischio giallo, ma capace di mordere, di confondere. Ne aveva cambiati cinque, Sarri, e immagino quanto gli sia costato: lui che per i colpi di stato ne invocava appena diciotto.

Verre e Amrabat davano i tempi all’Hellas, nessuno li dava ai campioni. Ramsey, al debutto da titolare, annusava gli schemi, Dybala era Messi a metà campo ma poi? Cristiano pascolava ai margini, idem Cuadrado. L’area sorda e vuota, non c’era centravanti: una pacchia, per Kumbulla e Gunter.

Nulla da dire sul rigore dell’acerbo Demiral, dal quale è nato, comunque, il gol di Veloso (gran sinistro dal limite) dopo il palo di Di Carmine e la traversa di Lazovic. Il pareggio, in compenso, è piovuto da una carambola di Gunter su un tiro del gallese, tiro che, sono sincero, non mi era parso irresistibile. E sempre il povero Gunter, già artefice del penalty di Calhanaglou, ha propiziato quello su Cuadrado, trasformato da Cristiano.

Danilo e Alex Sandro hanno spinto poco, Bentancur aveva le sue cose, meglio, molto meglio Matuidi (fino, almeno, al momento dello sparo). «C’era Guevara» ha invano spinto la squadra a salire, ma non è che i dipendenti gli abbiano dato retta. Higuain ha sostituito Dybala: poca roba, ma quel sangue al naso era da rigore. Juric, la scorsa stagione, fu il primo a bloccare la Juventus. E fra la parata di Buffon su Lazovic e il palo scheggiato da Veloso, migliore in campo per distacco, stava per riuscirci di nuovo.

Rimontata, rimontante: è una Juventus che il massimo l’ha dato finora contro Napoli e Atletico. Non a Parma e Firenze, e meno che mai oggi. Dimenticavo: con Khedira in campo, ancora zero gol al passivo.