Ma guarda un po’

Roberto Beccantini20 febbraio 2018

Passano gli anni, si moltiplicano gli scienziati, resistono gli artigiani, ma contro il Barcellona di Messi Conte ha giocato come aveva giocato Allegri che, a sua volta, aveva giocato come Mourinho che, per non essere da meno, aveva giocato come Di Matteo che, umile ma sveglio, aveva giocato come Hiddink. In che modo? Detto con il rozzo slang delle bettole, «a catenaccio e contropiede». Sussurrato con il forbito lessico dei Fusignanisti, sventolando un muro semovente, intasando i valichi, sfruttando e addobbando le ripartenze.

Era l’andata degli ottavi di Champions, Chelsea-Barcellona è finita 1-1. Alle sartine di Valverde il centro del ring, agli inquilini di Stamford Bridge due pali (di Willian, un gol (sempre di Willian) e un regalo (di Alonso & Azpilicueta) che Iniesta ha offerto a Messi e la Pulce ha scartato con la golosità del bambino che proprio una cosa così aveva chiesto a Babbo Natale.

Il calcio, pazienti miei, è una lotteria carsica che, appena può, si ribella ai sacri testi di cui le lavagne e le statistiche sono diventate gli stravaganti carcerieri. La partita è stata noiosa, lenta, giocata sul piano tattico come l’avrebbero impostata due normalissimi allenatori. Conte si è chiuso a chiave, salvo tenere aperte le finestre di Hazard, di Willian, di Pedro. Valverde ha ordinato il torello aziendale attorno a Sua Maestà, con Busquets, Rakitic e Iniesta intenti a telefonarsi fino allo sbadiglio.

Cosa sarebbe successo se di gol Willian ne avessi realizzati almeno due? Cosa sarebbe successo se i blu non avessero spalancato l’area a uno squadrone che fin lì, Suarez o non Suarez, aveva alzato solo polvere (e neppure da sparo)? Rimangono, lontani dal risultato, i numeri del possesso palla (Chelsea 32%, Barcellona 68%) e dei passaggi riusciti (Chelsea 246 su 333, Barcellona 778 su 868). Il calcio è anche altro. E’ attimo, è errore, è anarchia.

Come il gatto col Toro

Roberto Beccantini18 febbraio 2018

Contro un Toro che Mazzarri, dopo aver rianimato, aveva riconsegnato a una leggerezza quasi noiosa, lontanissima dall’effetto rodeo di Mihajlovic, la Juventus ha vinto in carrozza, come piace ad Allegri, senza subire (o concedere) lo straccio di una mezza palla-gol. E dire che l’infortunio di Higuain, già al 3’, sembrava un segno del destino. I granata non ne hanno approfittato, i campioni non ne sono diventati schiavi.

E’ chiaro, le panchine contano, e quella di Madama è una miniera capace di assorbire fior di assenze, «prima» e «durante». Dentro Bernardeschi, non so se mi spiego. Dentro, cioè, colui che, di destro, ha fornito l’assist ad Alex Sandro, un altro macino che, sempre di destro, ha sbloccato il risultato. La mediocrità soffusa della partita – e dell’avversario, soprattutto – ha portato la Juventus più vicina al raddoppio (con il rientrante Dybala) che non il Toro al pareggio.

Detto che trovo filosoficamente pericolosa la staffetta fra Szczesny e Buffon, detto ciò, non c’è molto da aggiungere. Le schegge isteriche lasciate dalla rimonta del Tottenham sono state spazzate dall’organizzazione con la quale, in campionato, Allegri disarma spesso i clienti di turno. La trovata del doppio terzino (Asamoah-Alex Sandro) ha pagato al di là di ogni più roseo dividendo. Chiellini e Rugani hanno imbottigliato Belotti; Iago Falque, da solo, non poteva che stappare bollicine; Niang è entrato tardi.

La ragion pratica di Allegri – giustificata, in questo caso, dagli ingorghi del calendario – ha prodotto un giro-palla attorno a Pjanic che i rivali hanno sofferto fino alla «masturbatio grillorum», avrebbe chiosato Gianni Brera.

Insomma: il derby era oggettivamente una trappola. La Juventus ci ha fatto cadere il Toro.

Quei dieci minuti

Roberto Beccantini13 febbraio 2018

Ad Allegri, gran gestore, questa volta non è andata bene. Fuori un centrocampista, ritorno al 4-2-3-1 con Bernardeschi a destra e Douglas Costa sul centro-sinistra. Dieci minuti di gran calcio, Higuain a segno in fuorigioco e poi su rigore (netto), dopodiché tanto catenaccio, tanto Tottenham, tra parate di Buffon, rigore di Benatia sfilato a Kane e gol di Kane (in contropiede, per la libidine della nemesi, viziato da un fallo di Eriksen su Chiellini).

Si sapeva della fragilità difensiva degli inglesi. Higuain si è mangiato il 3-0 e su rigore, netto pure questo, il 3-1. Pochettino aveva preferito Lamela a Son. Subito al tappeto, e non certo per un buffetto, i suoi si sono rialzati e hanno preso possesso del ring. Eriksen in mezzo, Kane e Ali ovunque, torello avvolgente.

Senza Cuadrado, Dybala, Matuidi e strada facendo anche Mandzukic, gli uomini erano contati, ecco perché avrei rischiato Bentancur dall’inizio. Perché proprio lì, a centrocampo, è girata la partita. Alla vigilia, quel birbante di Allegri aveva dichiarato: «Li voglio coraggiosi e incoscienti». Non so cosa sia successo, spero che lo sappia almeno lui.

Qualcuno se la prenderà con Higuain, reo di aver trasformato «solo» due occasioni su quattro, penalty compresi. Per me è stato il migliore della Juventus: se non, con Eriksen e Kane a ruota, il migliore in campo. Ha giocato contro tutti, contro troppi (persino Khedira, Mandzukic e il Douglas Costa di molti periodi). Gli «Spurs» hanno pareggiato nella ripresa, quando la Juventus era uscita di casa e con Bernardeschi qualche piccolo falò l’aveva acceso. Molle e aperta, la barriera sulla punizione di Eriksen, sorpreso Buffon sul suo palo.

Ha giocato, la Juventus, come fa di solito in campionato contro avversari che però non dispongono delle armi di un Tottenham. E così pure la Champions si complica. A Wembley come a casa del Bayern: da 2-2.