Il detentore, il detonatore

Roberto Beccantini2 giugno 2017

Juventus-Real Madrid: sulla carta, una partita obesa di storia, di storie. Il Real ha fatto l’Europa, la Juventus l’ha rincorsa. E se la forbice resta larga – undici Champions a due – non così drastica si profila la contabilità complessiva delle finali, quindici per i reali di Spagna, nove per i campioni d’Italia.

Si gioca a Cardiff, la terra di Gareth Bale, oh yes, ma anche di Ian Rush e, soprattutto, di John William Charles. Il gigante buono. Rispetto a Berlino 2015, questo Real mi sembra più umano di quel Barça, e questa Juventus più matura, anche se leggermente inferiore a centrocampo.

Sappiamo tutto di tutti. Zinedine Zidane l’ha vinta da giocatore e da allenatore. Massimiliano Allegri la insegue con un credito che il fatturato del triennio gli preserverà al di là di ogni ragionevole dubbio. Non solo gestione, che resta il piatto forte, ma anche lampi: il passaggio al 4-2-3-1, la mossa di Mario Mandzukic alla Samuel Eto’o, la primavera di Dani Alves.

In una notte, gli episodi possono orientare la trama più di mille lavagne. L’importante è coglierli o ribellarsi. Da una parte, Isco; dall’altra, Paulo Dybala: potrebbero essere loro, e i loro dribbling, i sassi per spaccare l’equilibrio. Oppure Marcelo e Dani Alves, Luka Modric o Sami Khedira. Senza trascurare Cristiano Ronaldo e Gonzalo Higuain, Gigi Buffon e Keylor Navas.

Le luci al neon già brillano: la miglior difesa contro l’attacco più attacco. Il Real di Zidane è il detentore, la Juventus di Allegri, oltre che l’ultima squadra ad averlo eliminato, il detonatore. Ci proverà, almeno. Entrambi si presentano con la pancia piena, entrambi sono uomini di mondo: sanno che essere arrivati fin qui è già tanto, ma tra poche ore per uno di loro sarà niente. I tribunali del web scalpitano. E allora: Real 51%, Juventus 49%. C’era più differenza a Berlino.

Totti in piedi

Roberto Beccantini28 maggio 2017

E così, un giorno non proprio all’improvviso, anche Francesco Totti ci lascia. A quarant’anni, dopo venticinque di Roma. Lo ha fatto alla sua maniera, giocando una fettina di Roma-Genoa che, prima di consegnarsi a un sofferto 3-2, che significa secondo posto e Champions diretta, mi ha ricordato il romanzo di Roma-Lecce 2-3 del 1986, quando Francesco non aveva ancora dieci anni.

E’ stato l’ultimo, grande, numero dieci di una collezione senza eguali. Roberto Baggio, Roberto Mancini, Gianfranco Zola, Alessandro Del Piero. Si chiamavano fantasisti: regalavano emozioni. Erano i campioni che ognuno di noi sognava di avere nella propria squadra, ma anche come avversari: per rendere ancora più valorose le vittorie.

I ritiri troppo lunghi nascondono sempre insidie, attriti, e il suo non finiva mai. Totti era la soluzione diventata un problema: e non solo per le scelte di Luciano Spalletti. Dino Zoff, che lo lanciò in Nazionale, e in azzurro seppe spremere il Totti più forte, gli ha sempre rimproverato di essersi accontentato, potente e versatile com’era.

A un genio si perdona tutto, anche gli eccessi di un carattere che i troppi genitori difendevano in un nome di una passione che faceva prigionieri. Come talento assoluto, lo colloco subito dopo Gianni Rivera. Ognuno di voi stili la classifica che crede. Alcuni diranno che ha vinto poco (è vero) , altri che non sono i successi a stilare le gerarchie (è verosimile).

Non è facile fendere l’enfasi di ingorghi emotivi come quello consumatosi all’Olimpico. Il Tottismo non gli ha reso un gran servizio. Resta la cifra tecnica, enorme: 250 gol in 619 partite, secondo solo a Silvio Piola. Gli juventini hanno pianto per Del Piero, i romanisti piangono per Totti. Sono strappi di vita (sì, di vita) che ognuno di noi porta nel cuore. Perché le bandiere hanno un pennone, ma il vento è di tutti.

Sola, lassù

Roberto Beccantini21 maggio 2017

Il sesto scudetto consecutivo, 33° in assoluto, isola la Juventus in cima alla storia. E’ arrivato alla penultima, come il primo di Conte, quando le gerarchie erano ancora confuse e la zavorra di Calciopoli ancora invasiva (due settimi posti). Tre sono di Antonio, l’uomo della svolta, e tre di Massimiliano Allegri, l’uomo della continuità e delle due finali di Champions, mai dimenticarlo, mai trascurarlo.

Mandzukic, Dybala e Alex Sandro hanno firmato il 3-0 al Crotone. Mercoledì era arrivata la terza Coppa Italia di fila. Il 3 giugno, a Cardiff, potrebbe aggiungersi l’Europa, sempre che si sappia andare oltre il Real. Non sarà facile, ma sarà bello provarci.

E’ lo scudetto della società, naturalmente: di Agnelli, Marotta, Paratici e Nedved, abili nel ritoccare la rosa negli anni senza incrinare l’equilibrio dei reparti e la forza complessiva. In principio fu Pirlo, e il centrocampo. Poi Tevez. Poi Dybala. Oggi Higuain. Resta un filo conduttore chiaro, netto, decisivo: la solidità. Sei scudetti, e sempre la miglior fase difensiva. E solo in due casi, ai tempi di Tevez, anche il miglior attacco.

Certo, i fatturati contano, e spesso pesano, ma sarebbe banale nascondersi, esclusivamente, dietro alla loro differenza. Ogni titolo si trascina un piccolo romanzo: la Juventus vinse il primo scavalcando il Milan di Ibra, il secondo, il terzo e il quarto per distacco, il quinto in capo a una rimonta che l’archivio sembrava escludere, l’ultimo gestendo il tesoretto accumulato.

Complimenti a Roma e Napoli, avversari irriducibili. Conte è la pistola dello starter; Allegri, un incartatore che trasmette, nel gioco, le malizie, il fiuto e le pause che ne caratterizzarono la carriera di mezzala. Se mi chiedete un simbolo, scelgo Mandzukic. Tra Firenze e Lazio Allegri capì e cambiò. Modulo e spirito. Quel Mandzukic medianizzato sembrava una serratura: fu la chiave.