La «salida allegriana»

Roberto Beccantini20 agosto 2023

Le attenuanti generiche della prima valgono per tutti. Ci mancherebbe. Ciò premesso, la «salida allegriana» dell’impatto sembrava appartenere a una squadra finalmente «normale». Pressing, velocità d’esecuzione, recupero rapido e baricentro, rispetto alle mappe d’antan, da cime innevate. Sventrata nella rosa, l’Udinese di Sottil ci metteva del suo: l’ingenuità di Zarraga a monte dell’azione Vlahovic-Chiesa, rifinita con un saettante destro dal limite; il mani-comio di Ebosele che propiziava il penalty trasformato dal serbo, giusto al 20’. E a bollicine ormai esaurite, l’uscita-capestro di Silvestri su cross di Cambiaso, un invito a nozze per la testa di Rabiot.

Va scritto che, sullo 0-2, l’arbitro aveva sorvolato su un contatto Rabiot-Thauvin, il classico rigorino che puoi dare (come sabato, al Frosinone) e non puoi dare. Sacchi suggerisce sempre di leggerle, le partite, nella loro interezza, e non di piegarle agli episodi. E allora? Chiesa «libero d’attacco» è un’idea che ha pagato: sino a quando, almeno, c’era benzina e la squadra lo puntellava «alta», in linea con l’indirizzo delle dottrine moderne.

Alla fantasia, in passato, provvedevano Dybala e Di Maria: ora che non ci sono più, bisogna inventarsela. Si è giocato più a sinistra (Cambiaso-Chiesa) che non a destra, là dove Weah seguiva più la lavagna che l’istinto. Con Miretti mobile ma grezzo nelle scelte e Locatelli, tosto, a presidiare i valichi.

Il caldo, lo scarto e i cambi hanno consegnato la ripresa al temperino di Samardzic, a un paio di parate di Szczesny e a una Juventus sazia e un po’ lessa. Iling-junior e Yildiz hanno sparso coriandoli di gioventù. Rimangono, della serata, quei venti minuti d’ingaggio. Belli e persino« cattivi». E’ una fetta che, senza Europa, il cuoco dovrà trasformare in torta.

La clausola Osimhen

Roberto Beccantini19 agosto 2023

Non tanto per i gol: il primo, molto bello (al volo, su percussione di Di Lorenzo); il secondo, «normale», su ennesimo tocco in profondità del capitano. Soprattutto per la «sveglia» data a Politano che, subito dopo aver pareggiato il rigore di Harroui, si era messo in posa davanti a una telecamera, invece di guadagnare in fretta il centro campo. Dallo scudetto a Frosinone, la clausola Osimhen continua a dettare legge. Capita spesso, ai leader.

Alla prima, di solito, si è indulgenti. Nel caso specifico, poi, c’era una prima nella prima: Garcia e non più Spalletti. Differenze? Calma. Anche a Verona, un agosto fa, l’approccio fu pacioso e la squadra andò sotto. In assenza di Kvara, più destra che sinistra: anche perché Raspadori tendeva ad accentrarsi. Meno possesso palla. Più ricerca del tiro da fuori. E Cajuste, l’unico «intruso»? Mobile ma irruente: sul penalty, e pure dopo. E’ una lancetta appena atterrata su un orologio raffinato. Diamogli tempo. Primo in B (contro la prima in A), il Frosinone che Di Francesco aveva ereditato da Grosso si è rivelato modesto, ma dignitoso, come ribadito dal palo di Baez (su punizione).

Se la «plusvalenza» del Napoli resta Osimhen, Lau-Toro rimane la pistola fumante dell’Inter. Doppietta l’uno, doppietta l’altro: su passaggio-cross di Dumfries da destra; su diagonale carogna di Arnautovic, appena entrato, da sinistra. La scorsa stagione, il Monza aveva soffiato 6 punti alla Juventus e 4 agli inzaghisti, 10 su 12 in totale. C’erano Carlos Augusto, Rovella, Sensi. C’erano. Vince di slanci, l’Inter, con Thuram a caccia di spazi e Sommer-time in attesa di mire meno vaghe, ancorché, in alcune mischie, insidiose: gira e rigira, sarà di Calhanoglu la «parata» più impegnativa.

Da Marassi, sinfonia Viola: 4-1 al Genoa di Retegui. Segnalo il bacio all’assist di Bonaventura per la sgrullatina di Mandragora. Gongola, Italiano, pensando ai processi per il gol preso…

A furor di popolo

Roberto Beccantini19 agosto 2023

Se c’è stato un allenatore vero, che non significa perfetto ma sincero, è stato Carlo Mazzone. Ci ha lasciato a 86 anni. Carletto o sor Magara, per quel romanesco da borgata che ha sempre scelto come colonna sonora. Difensore in gioventù e poi tecnico vagante. La saga dell’Ascoli all’epoca di Costantino Rozzi, il rapporto con i campioni – Francesco Totti, coccolato e difeso, Pep Guardiola, Roberto Baggio – mai subordinati alla meccanica del dogma. Del Divin Codino disse che, senza quei legamenti sfatti e rifatti, sarebbe stato un altro Maradona.

Di scuola italianista, attento ai cambiamenti, non chiuso in sé stesso. A zona o a uomo a seconda delle esigenze e non delle mode. Figlio del suo tempo e del suo personaggio, fin troppo, ma non schiavo. Ci vorrebbe l’elenco del telefono per ricordare tutte le squadre che ha pilotato: dall’Ascoli alla Viola, dal Bologna (in tre rate) alla Roma, dal Cagliari al Napoli (giusto un attimino).

Sanguigno, oh sì. Memorabile la sua corsa sotto la curva dell’Atalanta quando pilotava il Brescia, al culmine di un romanzesco 3-3. Proprio a Brescia, in anticipo su un altro Carlo, Ancelotti, arretrò Andrea Pirlo da mezza punta a regista (o play basso, per usare la terminologia moderna). Pep – ripeto: il Pep – gli dedicò la Champions del 2009, a imperituro affetto.

Con 792 gettoni detiene il record di panchine in serie A. Vuota la bacheca, non la carriera. Era lui il mister del Perugia che batté Madama e consegnò lo scudetto alla Lazio, tra Calori, rancori e piscine.

Ombre e luci. A Firenze fu indagato e prescritto per la morte sospetta di Bruno Beatrice. Durante un Torino-Fiorentina 4-3 del 1976, dopo il terzo gol, il più bello, si alzò dalla panca per complimentarsi con l’autore, Puliciclone in carne e dribbling. Una stretta di mano che fece il giro di molti cuori. Era il Toro che avrebbe vinto il titolo: il più grande dopo il Grande Torino.

A furor di popolo: era il suo motto. Sotto il dialetto, tanto.