A furor di popolo

Roberto Beccantini19 agosto 2023

Se c’è stato un allenatore vero, che non significa perfetto ma sincero, è stato Carlo Mazzone. Ci ha lasciato a 86 anni. Carletto o sor Magara, per quel romanesco da borgata che ha sempre scelto come colonna sonora. Difensore in gioventù e poi tecnico vagante. La saga dell’Ascoli all’epoca di Costantino Rozzi, il rapporto con i campioni – Francesco Totti, coccolato e difeso, Pep Guardiola, Roberto Baggio – mai subordinati alla meccanica del dogma. Del Divin Codino disse che, senza quei legamenti sfatti e rifatti, sarebbe stato un altro Maradona.

Di scuola italianista, attento ai cambiamenti, non chiuso in sé stesso. A zona o a uomo a seconda delle esigenze e non delle mode. Figlio del suo tempo e del suo personaggio, fin troppo, ma non schiavo. Ci vorrebbe l’elenco del telefono per ricordare tutte le squadre che ha pilotato: dall’Ascoli alla Viola, dal Bologna (in tre rate) alla Roma, dal Cagliari al Napoli (giusto un attimino).

Sanguigno, oh sì. Memorabile la sua corsa sotto la curva dell’Atalanta quando pilotava il Brescia, al culmine di un romanzesco 3-3. Proprio a Brescia, in anticipo su un altro Carlo, Ancelotti, arretrò Andrea Pirlo da mezza punta a regista (o play basso, per usare la terminologia moderna). Pep – ripeto: il Pep – gli dedicò la Champions del 2009, a imperituro affetto.

Con 792 gettoni detiene il record di panchine in serie A. Vuota la bacheca, non la carriera. Era lui il mister del Perugia che batté Madama e consegnò lo scudetto alla Lazio, tra Calori, rancori e piscine.

Ombre e luci. A Firenze fu indagato e prescritto per la morte sospetta di Bruno Beatrice. Durante un Torino-Fiorentina 4-3 del 1976, dopo il terzo gol, il più bello, si alzò dalla panca per complimentarsi con l’autore, Puliciclone in carne e dribbling. Una stretta di mano che fece il giro di molti cuori. Era il Toro che avrebbe vinto il titolo: il più grande dopo il Grande Torino.

A furor di popolo: era il suo motto. Sotto il dialetto, tanto.

Ai vostri posti…

Roberto Beccantini18 agosto 2023

Pazienti impazienti, ecco il campionato. Con il suo ghigno sinistro, i suoi lombi matronali, la sua reputazione da donna di facili costumi. Facili, ma irresistibili. Chiedo umilmente scusa agli appassionati di atletica, magistra vitae, se il decollo coincide con i Mondiali di Budapest. Ma così è.

La griglia è ormai una terapia della Clinica, anche se il mercato chiude solo il 1° settembre e, dunque, gli abbagli rischiano di superare di gran lunga gli azzardi. E’ stata l’estate del Lukaku fuggitivo, delle razzie arabe, dei ricatti e dei riscatti. Si riparte dal Napoli campione, da Garcia e non più da Spalletti, ct obtorta clausola; da un’Inter dall’attacco-cantiere (per ora) e un Milan che Sacchi ha bacchettato per eccesso di stranieri. Con la Lazio che Sarri dovrà far correre su due binari, e non più su uno; con la Roma cui Mou ha ribaltato il centrocampo, in attesa di un traliccio. Con la Juventus fuori dall’Europa (per me, uno svantaggio: toglie «sfiatatoi»), in balia del minimalismo di Allegri e le «visioni» di Giuntoli, chiamato a risparmiare senza deprimere le ambizioni. L’Atalanta traslocata da Hojlund a Scamacca e con De Ketelaere in versione Ilicic (ennesima sfida del Gasp). La Fiorentina a caccia di un equilibrio che Italiano baratta spesso con il coraggio. Un Toro bifronte: Juric mai contento, Cairo sempre. Un Genoa scoppiettante, da Gilardino in panca a Retegui in area. Il Monza del dopo Berlusconi. E il Sassuolo in balia di Berardi, l’ultima bandiera.

Nel dettaglio: 1) Napoli. 2) Inter. 3) Milan; 4) Juventus. 5) Lazio. 6) Roma. 7) Atalanta. 8) Fiorentina. 9) Torino. 10) Bologna. 11) Sassuolo. 12) Udinese. 13) Monza. 14) Salernitana. 15) Cagliari. 16) Genoa. 17) Empoli. 18) Lecce. 19) Verona. 20) Frosinone.

Del e dal Var avremo i colloqui. Tolleranza zero con le proteste. Insomma, il solito paraponzi-ponzipò. Siete pronti? La vostra grigliata?

Rivera, golden 80

Roberto Beccantini18 agosto 2023

In un turbinio di pallottole fra ex sposi (Roberto Mancini e Gabriele Gravina; Aurelio De Laurentiis, Luciano Spalletti e Gravina), Gianni Rivera compie 80 anni. Come ho scritto su «Sport del Sud», si parla di un simbolo, di un microfono capace di «liberare» un anello pericolante di San Siro, il pomeriggio della Stella (6 maggio 1979, Milan-Bologna 0-0). Di un parallelo che ci divise in due come la Corea, fra il Nord difensivista di Gianni Brera e il Sud napoletano degli offensivisti (Antonio Ghirelli, Gino Palumbo).

L’Abatino breriano, appunto, il «Tocco in più» di Oreste Del Buono. Il secondo pallone d’oro della nostra bacheca (dopo l’oriundo Omar Sivori: era il 1969 e Gigi Riva, beffato, s’infuriò). L’essenza circense del compromesso storico, la staffetta messicana con Sandro Mazzola che ci obbligò a schierarci, o di qua o di là, o per Sua Leggerezza o per il Baffo. Il piatto destro ai tedeschi nel partido del siglo, i sei minuti della finale con il Brasile di Pelé (al posto di Roberto Boninsegna, però), ennesima miccia dell’ennesima zuffa.

Il golden boy. Intervistato in tram da Beppe Viola, torchiato a tavolino da Oriana Fallaci. Battesimo ad Alessandria (a 15 anni e rotti), poi solo Milan: dal 1960 al 1979. Nel dettaglio: 3 scudetti, 4 Coppe Italia, 2 Coppe dei Campioni, 2 Coppe delle Coppe, 1 Coppa Intercontinentale (strappata all’Estudiantes di Carlos Salvador Bilardo in una notte di pestaggi sanguinari e sistematici, ben riassunta dagli zigomi di Nestor Combin). In azzurro, campione d’Europa nel 1968 e vice campione del Mondo nel 1970.

Per dirla seraficamente con Vujadin Boskov: vedeva autostrade dove gli altri solo sentieri. Numero dieci, di scuola Schiaffino, non leader subito, ma piano piano,
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