Il libro Cuore

Roberto Beccantini26 aprile 2015

E’ stato un derby dal quale, come da una valigia, è uscito di tutto: la storica vittoria del Toro dopo vent’anni – ripeto: vent’anni – i battiti furiosi del cuore granata, l’inchino della sorte che spesso l’aveva tradito, l’arte del professor Pirlo, i pali e le occasioni di una Juventus molle e poi asfissiante, punita da quella lotteria di episodi che spesso, in passato, aveva castigato gli avversari. Minimi i danni collaterali, visti la sconfitta della Roma a San Siro, con l’Inter, e il pareggio casalingo della Lazio, con il Chievo: i punti di vantaggio sono 14; e di giornate ne mancano sei.

Veniva dalla notte di Montecarlo, la Signora. Ha applicato un turnover casto, nella speranza che potesse bastare, e tenuto un profilo basso, in attesa degli eventi. Il Toro era partito con più «garra», ma l’occasione più chiara l’aveva offerta Pirlo a Matri; e un’altra, sempre su Matri, l’aveva sventata Glik. Ecco, Andrea Pirlo: un gol e un palo su punizione, un bouquet di assist, al lordo di qualche liscio in uscita. E’ tornato. Buona notizia, in proiezione Real.

Il Toro di Ventura ha giocato di gruppo, aggrappato a un’organizzazione che solo nella ripresa gli acciacchi, la tensione e i muscoli dei campioni hanno rigato. Gli uomini del destino sono stati tre: Fabio Quagliarella, dura lex sed l’ex, ispiratore dell’aggancio, artefice del sorpasso e delle minacce più serie, compresa una sforbiciata che Martinez, da posizione di fuorigioco, aveva corretto in rete, tanto da insinuare un dubbio: ce n’era proprio bisogno? Matteo Darmian, autore del pareggio con uno «stop a inseguire» che mi ha riportato al repertorio tutto istinto di Petruzzu Anastasi; Emiliano Moretti, protagonista degli episodi più caldi (mani-comio su cross di Pereyra e trattenuta a Morata, entrambi in area; martellata a Tevez). Tagliavento è stato buonista, io lo sarei stato di meno.
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La mia Juventus, il mio Real

Roberto Beccantini24 aprile 2015

Molti pazienti invocano un’analisi sul sorteggio. Per me, è stato straziante. Juventus contro Real Madrid. Sono le squadre del mio cuore, insieme al Liverpool. Della Juventus mi innamorai dentro il tunnel di Omar Sivori. Il Real fu tra i primi a invadermi il salotto con le «ombre bianche» di Alfredo Di Stefano, Ferenc Puskas e Francisco Gento. Una sfida europea con l’Inter mi portò in casa il ruggito di Anfield, in anticipo sulle note struggenti di «You’ll never walk alone» e il filo nero della barbara tragedia dell’Heysel.

Juventus-Real, dunque. E, naturalmente, Barcellona-Bayern. Sono le partite che ognuno di noi avrebbe voluto giocare o vorrebbe giocare, penso ai più giovani tra i degenti. Sembra una bestemmia l’eco dei gridolini strozzati (di giubilo? di scampato pericolo?) che affiora, furtiva, dalle camere della Clinica. Por qué mai si dovrebbe brindare per aver beccato proprio la squadra detentrice? La Champions League nacque nella stagione 1992-’93 e nessuno, nemmeno il destino, l’ha vinta per due volte di seguito. Ci prova il Real di Carletto Ancelotti: un allenatore del filone buonista e di scuola demo-sacchiana (traduzione: pressing alto, fuorigioco? raddoppi? Sì, ma prima ne parlo con Cristiano).

Real, cioè Francisco Franco, cioè Santiago Bernabeu. Il suo braccio destro si chiamava Raimundo Saporta. Vide la luce a Parigi, andava pazzo per il basket, don Santiago lo chiamò a sé e ne fece il primo grand commis del calcio transnazionale. Saporta partorì Italo Allodi che partorì, con il cesareo, Luciano Moggi. E la cronaca diventò storia, in troppi sensi.

Juventus, Real. Non ci sarà Modric, il Pirlo delle merenghe, e non si sa ancora se e come recupereranno Bale e Benzema.
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Un passo avanti e uno indietro

Roberto Beccantini22 aprile 2015

Non dico di imparare a memoria il breviario di Sacchi (vincere con il gioco, il gioco deve essere il dominus, eccetera eccetera), ma neppure di buttarlo nel bidone. Passare dalla Juventus di Dortmund alla Juventus di Montecarlo è stato, credetemi, un esercizio fachiresco. Le semifinali di Champions non venivano colte dal 2003 e, dunque, i risultatisti alzeranno i calici e i prestazionisti fingeranno di riempirglieli. In discussione è la qualità dell’ultima tappa, non di tutto il giro.

Il Monaco ha fatto quello che poteva: esce per un rigore che non c’era e un altro che, probabilmente, non ha avuto; ha costretto gli avversari a nascondersi dietro un gigantesco catenaccio. Non aveva attaccanti di peso, e ne ha pagato il fio. Kondogbia e Moutinho avrebbero giustificato ben altre carabine.

Catenaccio, mon amour: fatte le debite proporzioni, se escludiamo l’ultimo quarto d’ora, in cui i francesi erano bolliti, il muro juventino a casa Grimaldi mi ha ricordato il pullman che il Chelsea di Mourinho parcheggiò al Calderon, contro l’Atletico di Simeone (un filo più forte del Monaco, posso?).

Barcellona, Bayern, Real: altra categoria, altri mondi. Sono curioso di vedere quale Juventus scenderà in campo: se la Signora padrona del Westfalenstadion o questa, così timida, così anemica, così imprecisa. Certo, se si sommano i parziali – scudetto in tasca, semifinali di Champions, finale di Coppa Italia – ne esce una combinata straordinaria. Complimenti alla società, ad Allegri, ai giocatori.

Non per stasera, però: o, quanto meno, per come è stata gestita la pratica. Mi riferisco soprattutto all’allenatore, alla squadra. Non sono un patito degli schemi, 4-3-1-2 o 3-5-2.
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