Juventus d’Europa

Roberto Beccantini20 novembre 2012

Grande Juventus, oh yes. E’ la prima volta che impone il suo calcio anche in Europa, il calcio di Antonio Conte, poco italiano e con pochi campioni, talvolta ripetitivo, ma corale, coraggioso, moderno. In questi casi, il cuore rischia di portarsi via la testa. Il Chelsea era, è, il detentore della Champions. Sta passando dalla sponda dei Lampard, Terry e Drogba alla riva dei Mata, Hazard e Oscar: non è più Polifemo, non è ancora Nureyev. Ma è sempre il Chelsea.

E’ stata una partita tambureggiante, lontana dal pollaio italiano, segnata da pali, gol, parate (sulla linea e non). Penso che la chiave sia stata il 3-3-4, versione volante del 3-5-2, con il quale Conte ha accerchiato gli avversari. Lichtsteiner e Asamoah hanno offerto sponde, spazio, profondità. Quando gioca così, e azzanna così il rivale, la Juventus sa essere più forte degli errori (ogni palla persa, un bagno di sangue) e di un impianto che, immagino, avrà fatto sorridere gli scienziati di Coverciano, tre centrali per zero punte (Mata, Hazard, Oscar non lo sono). «Credo quia absurdum».

Sono vittorie, queste, che gonfiano il petto e vanno al di là del risultato, pure cruciale. Tutti hanno dato tutto. Buffon all’inizio (su Hazard), difesa e centrocampo sempre, Quagliarella al momento giusto. Fortuna e sfortuna hanno duellato a lungo prima di arrendersi. La Juventus è andata oltre le pause di Pirlo e gli sbadigli di Vucinic, non ha snaturato né modulo né spirito. Poi, è chiaro: tira Vidal, devìa Quagliarella e Marchetti diventa Tarzan; tira Pirlo, devìa Quagliarella e Cech rimane Cech.

Buffon ha parlato di segnale forte, all’Europa e per l’Italia. Piano con l’enfasi: a Donetsk serve un punto, e mancherà Marchisio, squalificato. Signora dei campionati, la Juventus aveva bisogno di una notte così. Non l’ha trovata. Se l’è presa. Chapeau.

Il confine

Roberto Beccantini17 novembre 2012

Fissato dalla traversa di Bonucci e le parate di Marchetti, il confine passa tra gli agganci e i ganci di Giovinco: siamo al limite dell’area; siamo, soprattutto, dentro la storia di una partita a senso unico. Juventus-Lazio vi gira attorno con il suo carico di esigenze e messaggi (il Chelsea martedì, il Tottenham giovedì). Conte è il primo a credere in Giovinco, ma temo che Sebastian sia ormai l’ultimo a credere in sé stesso, nei suoi nervi, nella sua mira.

Pogba non è Pirlo, si sapeva, ma gioca semplice, e ogni tanto lancia (più Asamoah che Isla): meglio, però, quando si lancia. A Petkovic mancano Lulic e Mauri, la Lazio si nasconde sotto il sofà e arma un catenaccio biblico. Da Hernanes e Klose, «zeru» notizie. E’ la Juventus con la bava alla bocca della stagione-scudetto, difesa alta e pressing feroce. Il problema riguarda la lama dei coltelli che vengono sfoderati sotto porta. Non uno che risulti all’altezza delle necessità, neppure il ferro di Quagliarella, devastante a Pescara.

Dopo un’ora, la Juventus sembra placarsi; e la Lazio, affiorare dal divano. Poi, però, tutto torna come prima. A me la Juventus è piaciuta. D’accordo, il dominio schiacciante sarà pure diventato noioso, ma non è colpa di nessuno se l’idea di Conte è superiore agli alluci di alcuni dipendenti, e Milito non abita a Vinovo.

Il ritorno di Pepe, gli ingressi di Matri e Bendtner portano al 3-4-1-2 e a un pugno di mischie. Gli estremi, ripeto, vanno dal molto di Marchetti al nulla di Buffon. E’ il secondo 0-0 dei campioni: a Firenze fu sofferenza, non assedio. Con il Chelsea sarà un’altra partita, nel senso che i blues non rinunceranno al contropiede, ma toccherà ancora alla Juventus sporgersi dal davanzale. Con la Lazio non ha badato a spese, e Vucinic, prossimo al rientro, è una pallina di roulette.

Tirata per i capelli

Roberto Beccantini17 novembre 2012

Caso Conte, ho trovato vaghe e imbarazzanti le motivazioni del Tnas. O illecito o niente, scrissi quando ancora la valanga sembrava un fiocco di neve. Niente, nemmeno l’omessa denuncia, se il bottino è il colloquio Conte-Stellini dell’8 marzo, confessato da Stellini il 29 luglio. E sia chiaro, niente di niente al netto di tutto: che Carobbio, come Masiello, possa essere credibile a circostanze alterne (non è uno scandalo); che Conte abbia attraversato tre società molto chiacchierate (Bari; Atalanta, dove però litigò con Doni; Siena); che Stellini, scelto da Antonio come scudiero, abbia patteggiato e si sia dimesso dalla Juventus; che, in ambito di giustizia sportiva, non si avverta la «necessità di raggiungere la certezza al di là di ogni ragionevole dubbio» (è sempre stato così).

Non escludo che Conte sapesse e non abbia denunciato, ma se le ragioni dei quattro mesi sono quelle certificate dalle dodici cartelle del Tnas, mi ribello. Nei vari gradi di giudizio erano via via caduti l’omessa denuncia di Novara-Siena e l’effetto Mastronunzio. Non restava che l’illecito, acclarato, di Albinoleffe-Siena. L’ipotesi «presuntiva» del collegio giudicante mi è sembrata tirata per i capelli (senza ironia). Se le cose stanno così (da «Tuttosport» del 16 novembre: Stellini gli aveva riferito solo della rissa dopo la partita dell’andata e del modo con cui aveva cercato di pacificare gli animimi in vista del ritorno), siamo molto «al di là» di ogni ragionevole dubbio e molto al di sotto del celeberrimo «si vis pacem para truccum».

Insomma: al posto di Conte starei più attento alla cernita dei collaboratori (e magari, sapendo di aver parlato in un certo modo con il «Bocia» ultrà dell’Atalanta, avrei bacchettato in un certo modo, e magari non in «quello», i giornalisti tifosi del Chelsea), ma spiegati così, i suoi quattro mesi non hanno senso.