La fame e la fama

Roberto Beccantini12 maggio 2013

Credo che Antonio Conte resterà alla Juventus. Insieme, cercheranno di vincere il terzo scudetto consecutivo, impresa che manca dagli anni Trenta, e di diventare più «europei». Non c’è esperto che non gli abbia riconosciuto la paternità della doppietta: tutti, rivali compresi.

Ciò premesso, nella remota eventualità che il mister si fermasse o cambiasse indirizzo, la Juventus è la Juventus e andrà avanti comunque: lo fece dopo il ritiro di Michel Platini, lo farebbe in questo caso. In che modo, non so: le basi, però, ci sono. Sarebbe un salto, certo: ma non più nel buio.

Dedicato ai fanatici delle lavagne. Non ho sentito Conte invocare schemi. L’ho sentito chiedere giocatori. Più grandi, possibilmente, di quelli che ha. Una punta tipo Cavani, un fantasista alla Jovetic, un vice Pirlo, un paio di esterni. Ne condivido i paletti: 1) questo organico si è spinto oltre le colonne d’Ercole; 2) se basta l’Italia, allora serve poco (in attesa di pesare il mercato del Napoli e delle milanesi); 3) se viceversa l’obiettivo sarà la Champions, urge una campagna più mirata.

Dal 3-5-2 Conte medita di passare al 4-2-3-1 stile Bayern. Oppure, con il ritorno di Pepe, al 4-3-3. Coppia di riferimento, Ribéry e Robben. Piccolo consiglio: non batta sempre il tasto della «ferocia», della «bava alla bocca». Nessuno nega l’importanza cruciale degli stimoli: là dove, soprattutto, il bilancio piange. Così facendo, Conte maschera e riduce la fragranza del gioco. Il suo gioco. Perché darsi martellate sui genitali? La pancia piena è un’insidia. L’alluce modesto, un pericolo. La Juventus di Conte ha vinto «anche» perché ha giocato meglio, non solo perché è stata più Thatcher degli avversari.

La fame e la fama: la prima fa uscire dall’indifferenza, la seconda fa la differenza. Insieme, fanno la storia.

1.130 Commenti » Leggi i commenti o scrivi il tuo Pubblicato in Per sport

Da Petrini a Ferruccio

Roberto Beccantini7 maggio 2013

Ferruccio Mazzola, scomparso all’età di 68 anni dopo lunga malattia, era piccolo e talentuoso. Lo tradì il carattere, narrano i biografi. Troppo testardo, troppo solitario. Nel 2004 diventò un caso lettario, con la pubblicazione de «Il terzo incomodo», un libro che parla – anche – di doping. Il doping degli anni Sessanta-Settanta. Fu, quel tomo, un j’accuse al mondo del calcio; e dal momento che lo firmava il figlio del grande Valentino nonché fratello del celebre Sandro, apriti cielo (per un po’, almeno). Non risparmiò nessuno. Non la Fiorentina, non la Lazio, non la Roma del caso Taccola. Non risparmiò, soprattutto, l’Inter di Helenio Herrera e di Sandro, al di là dell’unica presenza ufficiale. L’autore parlò di pastiglie strane, di caffè misteriosi, di pratiche sospette.

Nel corso di un’intervista rilasciata a «L’Espresso», nel 2005, citò i decessi di Armando Picchi, morto a 36 anni di tumore alla colonna vertebrale, di Carlo Tagnin ucciso da un osteosarcoma nel 2000, Mauro Bicicli, deceduto nel 2001 per un tumore al fegato e Ferdinando Miniussi, il portiere di riserva, morto nel 2002 per una cirrosi epatica evoluta da epatite C.

L’Inter s’infuriò e sporse querela per diffamazione. Il tribunale la rigettò: «Quello di Mazzola è un racconto chiaro e completo in cui l’ex calciatore si è limitato a riportare i fatti vissuti in prima persona: fatti che concretizzano un interesse sempre attuale della collettività». Il doping, all’epoca, non era reato penale, e così nessun Guariniello aprì un fascicolo: ognuno restò delle sue idee, a cominciare da Sandro, che s’incavolò di brutto, e Giacinto Facchetti che, in qualità di presidente interista (all’epoca), aveva firmato la querela.

Come Carlo Petrini, Ferruccio ha aperto gli armadi della nostra ipocrisia. Lo ricorderemo anche per questo.

Da favorita, ma per k.o.

Roberto Beccantini5 maggio 2013

Il ventinovesimo scudetto della Juventus coinicide con il secondo consecutivo di Antonio Conte. Se il primo fu vinto in volata, sul Milan di Ibrahimovic, questo è stato stravinto per distacco. Ho azzeccato l’ordine d’arrivo (Juventus, Napoli), non le distanze. La Juventus è in testa dal 7 aprile 2012. Non è stata brillante e martellante come la scorsa stagione: è stata la più forte, stop. Chapeau ad Andrea Agnelli e al suo staff.

Su tutti e su tutto, Conte. Giocatore simbolo, Barzagli: quando arrivò, nel gennaio 2011, prendemmo in giro Marotta. I numeri non sono il vangelo ma aiutano a capire: miglior difesa (repetita iuvant), impennata di vittorie, crollo dei pareggi. E quattro sconfitte contro le zero di un anno fa. Sul piano tattico, il 3-5-2 ha scortato anche l’attuale safari. Modici i ritocchi: il 3-5-1-1, per issare a bordo il tritolo di Pogba (vergognoso lo sputo in risposta alla manata di Aronica) e, in casi d’emergenza, il 4-3-1-2 e il 4-3-3, modulo, quest’ultimo, che con Pepe «sano» avremmo visto più spesso. Credo che la prossima stagione coinvolgerà nuove sfide: questa rosa, per Conte, ha dato il massimo (concordo). Di qui la parabola dell’uomo Conte, juventino a vita, e del professionista Conte, juventino «se». Le pressioni saranno tremende. Urgono forze fresche, soprattutto sulle fasce e in attacco, là dove il via-vai potrebbe coinvolgere, addirittura, l’intero reparto.

Supercoppa di Lega, scudetto, semifinali di Coppa Italia, quarti di Champions: missione compiutissima, in rapporto alle risorse e alla concorrenza. Non è stato un campionato tecnicamente memorabile. I confini sono, da una parte, i sette giocatori forniti alla Nazionale vice campione d’Europa, segno di una buona qualità media e, dall’altra, i 18 e 30 punti inflitti al Milan azzerato e all’Inter decimata da Moratti e dagli infortuni. Altra cilindrata, la Juventus: ma Conte non vive tra le nuvole.