Ma come, Agnelli definisce il nono scudetto «un’impresa» e poi licenzia Maurizio Sarri? Champions ci cova, naturalmente. Perché l’ossessione era e resta quella lì: il «sogno» diventato «obiettivo». Non sono d’accordo, lo sapete. Avrei tenuto «C’era Guevara» e gli avrei disegnato attorno guerriglieri più giovani, più adatti alla sua «Poderosa». Le rivoluzioni costano: non si può pensare di rovesciare la tradizione sporcandosi solo il bavero. Soprattutto in Europa, là dove non sempre ti baciano.
Invece no. Nell’arco di due stagioni, John Elkann e Andrea hanno preso le classifiche e le hanno buttate nel cesso: via Massimiliano Allegri, che di campionati ne aveva vinti addirittura cinque, e via pure il Comandante, al primo, storico hurrà dopo la scapigliatura napoletana e l’Europa League con il Chelsea.
Una mossa banalotta, da padrone delle ferriere. Paga, Sarri, l’importanza smodata e morbosa che diamo agli allenatori. Strapagati, spacciati per maestri e poi, se le cose non vanno come la propaganda millanta, gettati nel cestino. La fa franca, per ora, Fabio Paratici, il cui mercato, molto confuso, non ha certo aiutato il Predicatore.
All’alba dei Novanta, Gigi Maifredi e il suo calcio champagne fecero la fine del Titanic contro l’iceberg di un settimo posto. Oggi, in tutt’altre circostanze e con ben altri esiti, è il turno di Sarri, così elastico e scafato da scendere a patti con Cristiano e gli altri califfi, non così energico e coerente – evidentemente – da sapervi rinunziare. Perché la sponda del fiume è sempre piena di turisti in attesa del cadavere. Perché la Champions è tutto, e le svolte estetiche sono le favole che i giornali raccontano agli adulti per farli addormentare.
L’operazione Marziano è costata un occhio della testa.
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