Dietro l’angolo

Roberto Beccantini5 dicembre 2021

Da Çalhanoglu a Cuadrado, son tornati di moda i gol su calcio d’angolo. Direttamente. Si chiamano «gol olimpici» dal 2 ottobre 1924: da quando, cioè, l’argentino Cesareo Onzari beffò il portiere dell’Uruguay, fresco dell’oro ai Giochi di Parigi. Da qui, appunto, olimpico. Il turco, a Roma, sul primo palo: con Zaniolo e Cristante a confondere Rui Patricio. Il colombiano, sul palo lontano, con una parabola liftata, più elegante, a scavalcare Sirigu. In questi casi, si accendono i dibatti: poteva, il portiere, fare di più? Voleva, il tiratore, metterla proprio lì? Cuadrado ha confessato nella notte: volevo crossare. Grazie.

Il resto, adesso. Sei punti fra Salernitana e Genoa, l’ultima e la terzultima: 2-0, 2-0. Avversari sfigurati dalle assenze: piano, dunque, con le trombe. Il campionato di Sheva comincia venerdì, con il derby. Non poteva, la partita, che consegnarsi alla tirannia geografica di Madama. Allegri ha confermato il 4-2-3-1, Kulusevski, Dybala, Morata, Bernarderschi, costui più interno che ala. Continua a piacermi Pellegrini: e forse per questo mi è stato tolto (scherzo, era ammonito).

Non c’era trama, se non che Locatelli e Bentancur sferragliavano, laboriosi, verso l’area promessa. Non è facile demolire i catenacci. Servono i dribbling (Dybala, Cuadrado), la velocità di pensiero o di tocco. La mira. Ecco: soprattutto la mira: e qui cominciavano i guai, a parte gli scarabocchi tecnici, sempre troppi in rapporto alle ambizioni.

Sino al raddoppio di Dybala, sinistro croccante su invito della Bernarda, Sirigu aveva sventato almeno quattro palle-gol: una a De Ligt, due a Morata, una alla Joya. E così il vecchio Grifo è stato in partita sino all’82’. I nervi di Morata, già ammonito, hanno spinto l’«Halma mater» a toglierlo. C’è stato uno scazzo, figlio, spero, degli errori sotto porta.

Dea, giù la maschera

Roberto Beccantini4 dicembre 2021

Mi libero subito del risultato, 2-3, e del tabellino – Malinovskyi di violino, Zielinski di forza, Mertens di bisturi, Demiral di sasso, Freuler di biliardo – perché c’è un sacco da raccontare. Gran partita, al Maradona. Al Napoli ne mancavano cinque, tutti titolarissimi, più Spalletti. Ecco perché sconfitta e terzo posto non devono abbatterlo.

Per l’Atalanta era un esame. Si è fatta furba, senza rinunciare alla bellezza scultorea che l’aveva resa unica, ha allargato la gamma del repertorio persino al catenaccio: come allo Stadium, nella ripresa; come stavolta, nel finale. Attorno a un titanico Zapata, era tutto un ribollir di tini e di Toloi. Han menato, han pressato. Il Napoli ha dato il massimo, così conciato, ed era rientrato in partita con l’agilità dei suoi stukas: Mertens, Lozano, Malcuit (sì, Malcuit), Lobotka.

L’ordalia è stata battuta da ritmi fanatici, la metà campo sembrava un confine senza barriere, tale era il traffico che ne congestionava il passo: per tacere del gol di Mertens, scattato addirittura dalla sua, con Demiral sorpreso. Una topica tattica smorzata un po’ dai cambi e un po’ dal furore. Poteva uscire di tutto, da una simile roulette, il pareggio o la vittoria del Napoli. Ogni duellante ha avuto le sue occasioni, sporche e pulite, Zapata ha colto addirittura un palo. Sono stati i dettagli, al termine, a condurci dal vincitore.

Il Napoli non deve cedere alle sirene del fatalismo, l’Atalanta non può più nascondersi: Milan 38, Inter 37, Napoli 36, Atalanta 34. Penso che le staffette, complessivamente, abbiano dato una mano più alle esigenze del Gasp che non al palleggio degli avversari. Restano le tracce, calde, di una sfida rusticana, con la squadra in difficoltà, sempre o quasi, capace di ribellarsi al destino. La Dea, soprattutto.

Troppa Inter per i cerotti di Mou

Roberto Beccantini4 dicembre 2021

L’Inter, grande, scende all’Olimpico e domina una Roma decimata e rassegnata. Di Mourinho non affiora nulla, se non l’attesa dell’attesa, che mai sarà una buona idea. La orienta Calhanoglu: su angolo infingardo, complici Zaniolo, Cristante e Rui Patricio. E con un tocco, al culmine di una splendida azione, che smarca Dzeko, l’altro grande ex.

Mou, alla vigilia, non aveva parlato. Un segnale che molte Sibille avevano cercato di tradurre. Invano. Settimo tonfo, e la sensazione che, lontano dai Drogba e dagli Eto’o, sia dura per tutti: anche per i profeti. Non ha rinunziato al 5-3-2, ha adattato troppe pedine, ha lasciato Zaniolo in balìa di troppo campo, di troppi compiti. Brera si sarebbe commosso, per come ha difeso la sconfitta. A Fusignano no: avrebbe dovuto osare.

Non c’è partita, il turco è uno dei confini tra la nuova e la vecchia Inter. Conte aveva Eriksen, che però da trequartista non quagliava nel 3-5-2 di base. Finì titolare, il danese, al fianco di Brozovic, in una sorta di doppio play. Calha ha più libertà, lascia al croato la regia e lo affianca nei momenti di emergenza, oggettivamente rari. Faccia pure quello che vuole, se lo fa così.

Simone non ordina l’indietro tutti. Anzi. Uno dei più propositivi è Bastoni. Uno stopper. Il suo sinistro, non nuovo a certe traiettorie, stimola la zuccata volante e possente di Dumfries che, un attimo prima, aveva salvato su Vina. E tre.

In tribuna il ritorno di Totti agita la malinconia canaglia di un popolo sfinito ma infinito. Attorno al marziano-Mou di Ennio Flaiano, in compenso, non c’è più la folla dell’atterraggio a Villa Borghese: le mamme, i pargoli, le nonne, i pensionati. C’è chi comincia a chiedersi, dandosi di gomito: embé, tutto qui?

Alla ripresa, l’ingresso di Bove (2002) al posto di Kumbulla è un segnale di fumo. Parcere subiectis: non succede più nulla.