La solita solfa, la solita fifa

Roberto Beccantini22 settembre 2021

Non proprio il solito film, visto l’epilogo. Ma la solita solfa: assolutamente sì. E cioè: gol di Kean, bello fra l’altro, poi traccheggio e pareggio di Gyasi. Alla ripresa, tutti avanti e gol di Antiste in contropiede, su campanile di Maggiore. Ri-tutti avanti, un po’ di cambi, la «parata» di Locatelli, l’aggancio di Chiesa, di forza, il contro-sorpasso di De Ligt in mischia. Dopodiché, ari-tutti indietro. Con un mezzo miracolo di Szczesny su Maggiore a privare lo Spezia di un onesto 3-3.

Invece 2-3. La prima vittoria, alla quinta. Allegri, lui, tatticamente non è mai stato giovane, è nato mezzala fru-fru, è diventato gestore scaltro, attratto dalle mosse, ultimamente un po’ ripetitivo. Vive sui giocatori, mescola le carte, anche stavolta. Un tipo così. L’hanno salvato Chiesa e De Ligt, i «giovani» contro i quali si era scagliato. Il primo, una furia; il secondo, un po’ pigro sul raddoppio ma poi chirurgo nella bolgia.

Cosa sposta il successo? Poco, se pensiamo al gioco. Abbastanza, sul piano del morale. A patto di non pensarsi guariti. Lo Spezia di Thiago Motta non è stato molle, tutt’altro, ma oltre certi limiti non poteva sporgersi. Il suo calcio profuma di provincia: la scorsa stagione, per domarlo, Pirlo dovette sguinzagliare Cristiano; e c’era ancora Italiano.

La Juventus è ormai un caso. L’avevo collocata in pole, addirittura, e dunque merito la Siberia. D’accordo, c’era il marziano quando stilai la griglia, ma detesto gli alibi. Allegri, Allegri. Ecco: è l’ultima «speranza». Che sia tutta colpa sua. Tutta. Come per Sarri, come per Pirlo. Resta il discorso di fondo: squadra lenta, «vecchia», che si ciba di sprazzi, di episodi, con quel viziaccio di rintanarsi appena sfamata. Già immagino, Max: oh grulli, vi piace di più prenderlo in contropiede, come in avvio di ripresa? Odo gli augelli di Adani far festa, anche voi?

La Viola e la rosa

Roberto Beccantini21 settembre 2021

Gran bella partita, al Franchi. Hanno vinto i più forti, da forti. Nel primo tempo, il gioco della Fiorentina. Nel secondo, i giocatori e le giocate dell’Inter. Italiano è un tecnico che rischia (Benassi terzino), che pressa, che ama il coro. La Viola sembrava una serra, non solo un fiore. Parate di Handanovic su Gonzalez e Vlahovic, gol di Sottil (dal lato debole, su cross teso dell’argentino, dall’altra sponda). Torreira radar di un aeroporto dal quale decollavano e atterravano tutti con sincronia e sinfonia. Prendete lo Spezia che surclassò il Milan e alzatelo: ecco.

Guarda che luna, si cantava e si sognava. Poi, è successo qualcosa. Inzaghino avrà alzato la voce – non lo so, immagino – e la Fiorentina, come scriveva il sommo Brera, a poco a poco è morta di sé medesima, del suo eretismo podistico.

L’Inter, d’improvviso, ha cambiato marcia. Pareggio di Darmian, su contropiede Calhanoglu-Barella. Sorpasso di Dzeko: di testa, su angolo. Occasioni vaganti come le pallottole dei vecchi western. Brozovic, non più asfissiato, riconquistava la cattedra. I cambi (Dumfries, soprattutto) portavano benzina, aggiungevano tritolo. L’equilibrio, godibile, veniva spezzato dalla standing ovation di Gonzalez all’arbitro. Rosso per cumulo. Fine delle trasmissioni: e Dazn, stavolta, non c’entra. Il 3-1 di Perisic, imbeccato da Gagliardini (un panchinaro, lui quoque) era nell’aria e nell’area.

L’Inter incassa un gol a partita ma ne segna quasi quattro (18). E’ solida: si sapeva. Ha trovato, credo, il gestore che saprà garantirle la pace dopo le «guerre» di Conte. La Fiorentina ha reclutato la guida che la porterà dentro il Louvre: magari non proprio sotto la Gioconda, ma neppure nelle cantine del museo, come nelle stagioni scorse, quando ci si salvava sul filo del filo, tra custodi distratti e turisti generosi.

Morale della favola: tra la Viola e la rosa, ha vinto la rosa. Dell’Inter.

Stanchi alla meta

Roberto Beccantini19 settembre 2021

Troppo bella, la Juventus del primo tempo. E troppo scarno, l’uno a zero. Subito il gran gol di Morata, su contropiede coast to coast e tocco smarcante di Dybala, poi le parate di Maignan su Morata e Dybala. Allegri aveva azzeccato tutto: 4-4-2 ad assetto variabile, con l’Omarino e Cuadrado a scambiarsi centro e destra, Bonucci incursore, un’attesa mai passiva e un pressing strano, per la classifica che corre e la squadra che cammina(va).

Al Milan mancava la ciccia di Ibra e Giroud. Di Pioli non ho capito Tomori a destra, quasi terzino. Il k.o. di Kjaer e l’ingresso di Kalulu riproponevano l’assetto canonico. Brahim Diaz guizzava fra le linee, il duello Cuadrado-Theo richiamava paragoni omerici. Il mordi e fuggi di Madama, a una velocità fin qui sconosciuta, stimolava l’ordalia. Bentancur e Locatelli contendevano il centrocampo a Kessié e Tonali.

Una partita gradevole, solcata da ribaltoni, la Juventus sorniona ma non guardona, il Milan a girarle attorno, Rafa Leao e Rebic soverchiati. Il problema della Juventus è il secondo tempo. Come a Udine, come a Napoli. Se in quei casi furono gli episodi a tenere su il tesoretto, questa volta era stato il gioco. Però bisogna darci dentro per novanta minuti. Piano piano, il Milan ha preso campo; zitti zitti, gli juventini hanno cominciato a flettere, e così i campanili di Chiellini, preferito a De Ligt, sono sembrati trafelati sos.

Se non proprio il solito Milan, calligrafico sino al limite dell’area e poi stop, tornava la solita Juventus, tirchia e vulnerabile. Uscivano Morata e Dybala, Chiesa veniva impiegato (al posto di Cuadrado) quando ormai l’ordalia si era consegnata a un wrestling leggero, confuso, il Milan a girar palla, la Juventus a vivere di briciole, di raccordi, forse di ricordi. Kulusevski alzava polvere, come Kean.
Leggi tutto l’articolo…