Chiusi per fallimento

Roberto Beccantini13 novembre 2017

Siamo fuori dal Mondiale per la seconda volta sul campo, la prima fu nel 1958, a Belfast, e gli arbitri non c’entrano. Siamo fuori, noi quindicesimi nella classifica Fifa, per mano (e catenaccio) di una Svezia che è venticinquesima. Siamo fuori per episodi, certo, ma non solo: siamo fuori perché in due partite non abbiamo segnato lo straccio di un gol.

Il palo di Darmian, a Stoccolma, raggiunge in archivio il palo di Rizzitelli a Mosca, lo 0-0 che segnò la notte di Vicini e l’alba di Sacchi. Per comodità del lettore: fuori al primo turno nei Mondiali 2010 con Lippi e ai Mondiali 2014 con Prandelli. Secondi in Europa con Prandelli nel 2012 e fuori nei quarti, con Conte, l’anno scorso. E’ la fine – amara, brutta – di un ciclo. Ma meritata da tutti. Da Tavecchio, che si bea di aver telefonato a Infantino dopo le gomitate di Stoccolma. Da Ventura, che non è riuscito a far squadra nel periodo cruciale. Non dico che Insigne sia un fuoriclasse – non ancora, almeno – ma rinunciarvi in maniera così ostinata mi è parso un «abuso» di potere, tanto per impiegare un termine alla moda. E pure dai giocatori, gonfiati spesso dal silicone di noi giornalisti.

La chiave è stata Madrid. Quel 3-0 della Spagna, quel 4-2-4 che avrebbe indignato Brera e invece titillò molte redazioni. Il sole non ci sembrava così lontano, ma le nostre ali erano di cera. Ecco: da quella sera, Ventura ha perso il controllo e nessuno, dall’interno o dall’esterno, è stato capace di fornirgli un filo, uno qualsiasi, per aiutarlo a uscire dal labirinto.

Il ct è andato a fondo con la «sua» Bbc. Da oggi cominciano i processi. Al calcio italiano. Ai dirigenti italiani. A Ventura, che pagherà per tutti, o comunque prima di tutti.

Zero gol alla Svezia in due partite: al netto degli stranieri, questi siamo. Nella speranza che sia solo colpa del ct. E di Tavecchio.

Nessun alibi, nessun dorma (lunedì)

Roberto Beccantini10 novembre 2017

E’ la classica partita da zero a zero che un paio di episodi, non di più, hanno spaccato a metà; e così la Svezia è più vicina di noi ai Mondiali. Noi che, sul campo, fallimmo solo e proprio l’edizione svedese del 1958. Il gollonzo della ditta Johansson-De Rossi e il palo di Darmian rendono spasmodico il ritorno di San Siro.

Ciò premesso, una parata Buffon e una Olsen. D’accordo. Una palla-gol, subito subito, di Belotti. Ma se ti riduci a giocare come hai giocato, soprattutto a centrocampo, la riffa degli attimi se ne frega del possesso palla, delle zuffe, del taccuino. Va dove la porta il vento. E dal momento che si giocava a Solna, ha scelto i nipotoni di Ibrahimovic. Ma che brutta partita. Su «Eurosport» avevo suggerito il 4-3-3 con Candreva, Immobile e Insigne. E’ troppo comodo dire che, se il ct mi avesse dato retta, non sarebbe finita com’è finita. Ventura ha le sue responsabilità – su tutte il «casino disorganizzato» che sembra diventato l’ultimo manifesto della sua gestione – ma vogliamo parlare di Immobile, di Verratti, di Candreva eccetera eccetera? Belotti non era al massimo, e proprio per questo sarebbe stato più «furbo» impiegare Eder. Se ne devo salvare uno, salvo Darmian.

Gli svedesi di Andersson sono stati di parola: palla alta e sgomitare. Ma non ho colto segni di violenza, se non nell’agguato iniziale di Toivonen al nasino di Bonucci. Mi aspettavo di più anche da quel genietto di Forsberg. L’arbitro, amministratore fin troppo pacioso di condomini che si graffiavano a ogni intervento, non ha inciso.

Eravamo lenti, imprecisi, confusi. A San Siro, lunedì, serve una rimonta che non so quanto Ventura abbia nelle corde. La sveglia deve venire dagli anziani. Da un po’ più di coraggio. E, magari, da un Insigne titolare.

Pirlo, la geometria al potere

Roberto Beccantini6 novembre 2017

Giunge, da una New York ancora ferita, la notizia dell’ultima partita di Andrea Pirlo. Lascia, il Maestro, a 38 anni, dopo aver vinto tutto e «spiegato» – lui che poteva – come bisogna giocare per vincere tutto. Con quella barba un po’ così e lo sguardo profondo com’è profondo il mare, è stato un fuoriclasse che i silenzi nascosero per lungo tempo alla pigrizia di noi spacciatori di iperboli. Ci pensò Johan Cruijff a buttarci giù dall’ovvio.

Dal 1995 al 2017, Brescia, un po’ di Inter, un po’ di Reggina, ancora Inter, ancora Brescia, tanto Milan, tanta Juventus, fino al New York City. E’ stato campione del Mondo con Marcello Lippi, vice campione d’Europa con Cesare Prandelli, campione d’Europa under 21 con Marco Tardelli. Ha vinto sei scudetti (2 con il Milan, 4 con la Juventus), 2 Champions e 1 Mondiale per club con il Milan. Oltre a una pila di coppette varie.

Mezzala, trequartista, perno basso bel rombo, regista. Ha attraversato il centrocampo come Mosè il Mar Rosso senza bisogno che gli dividessero le acque. gli è bastata la visione pre-ventiva, e quasi mai post-ventiva, del lancio, del tocco, del tiro. L’idea di arretrarlo per farlo convivere con Roberto Baggio venne a Carletto Mazzone, al Brescia. Un altro Carlo, Ancelotti, ne perpetuò la mossa al Milan, fino a renderla un «brand». E Antonio Conte, alla Juventus, pur di offrirgli le chiavi della squadra, non esitò a passare al 3-5-2.

Obiezione: ma questa è una sviolinata. No. E’ un piccolo omaggio a un giocatore che ha insegnato geometria a tutti noi, annoiandoci di rado. Senza trascurare le punizioni alle quali assestava le traiettorie più ambigue, più feroci, più letali. Diventarono «le maledette». Per Charles Baudelaire, «chi guarda attraverso una finestra aperta vede meno cose di colui che guarda attraverso una finestra chiusa» Ecco: Pirlo è stato così.